Sulle tardive dimissioni del sindaco Pogliese proponiamo questo contributo di Antonio Fisichella.
Una scelta “accelerata da una realpolitik quasi darwiniana”: così il miglior cronista de La Sicilia ha incorniciato le dimissioni di Pogliese da sindaco.
Non si capisce cosa c’entri Darwin, la realpolitik di un Bismarck, di un Richelieu o di un De Gasperi con il povero Pogliese, intento solo ad arraffare un comodo seggio parlamentare per scappare da seri guai giudiziari e tirarsi fuori da una condizione di sindaco fantasma ormai insostenibile. Ma il richiamo dalla realpolitik suona bene. Ha un che di misterioso e glamour.
Serve soprattuto al sindaco per oscurare la storia di un fallimento. Quella di un sindaco da operetta, sospeso tra un uso strumentale del culto di Sant’Agata e l’esaltazione del “Calcio Catania ’46”. A suo modo ha cercato di interpretare la catanesità, offrendone un’interpretazione caricaturale e deleteria, incapace di stringere un rapporto autentico con la città e le tragedie che l’attraversano.
Come quando, ospite del forum de La Sicilia, diede la colpa del fallimento della campagna vaccinale e dei cumuli di immondizia nelle strade all’indolenza dei cittadini.
Più che un sindaco sospeso è stato un sindaco mancato. Ha sempre vantato di essere stato eletto con il 52% di consensi, dimenticando che al voto catanese aveva partecipato il 50% degli elettori e che i suoi consensi non andavano oltre il 25% degli aventi diritto al voto. Una sindacatura nata debole sul piano politico, con una scarsa legittimazione elettorale e una giunta azzoppata da una lunga serie di dimissioni di assessori. La vicenda della sospensione ha finito con l’aggrovigliare il tutto ma non ha cambiato più di tanto un canovaccio fallimentare già scritto in origine.
Ma la politica è una cosa estremamente seria. Così, nelle stesse ore in cui Pogliese imbastisce quattro parole per giustificare la fuga della città, Catania viene travolta da una immensa tragedia: un ragazzino uccide a coltellate la propria madre per difendere l’ ‘onore’ del padre e della famiglia. La notizia delle dimissioni viene quasi oscurata, di peso riportata alle sue più autentiche dimensioni: una piccola manovra di palazzo. La città assiste attonita e incredula alla violenza che il proprio ventre sprigiona.
Pogliese nell’intervista dell’addio “scoppia quasi a piangere ricordando l’ultima festa di Sant’agata da sindaco sospeso”, ma non trova una sola parola per rapportarsi al dramma in cui è caduta la città. Non riesce neanche a pensare un misero post nel suo affollato facebook per ricordare la morte orribile di Valentina e il contesto in cui è maturata.
D’altronde per quattro anni ha ferocemente negato ogni problema e qualsiasi complessità. Quando indossò per la prima volta la fascia di primo cittadino giurò che avrebbe portato a Palazzo degli Elefanti niente meno che “la voglia di libertà e di volare alto del gabbiano Jonathan Livingstone“. Mai citazione fu più profetica: quando Mattarella ha sciolto le camere il gabbiano Jonathan Pogliese ha capito che quella era un’occasione da non lasciarsi sfuggire per coronare il sogno della sua personalissima libertà.
Così ha deciso di spiccare il volo verso Roma, e planare sul comodo seggio parlamentare che la Meloni gli regalerà. Già lo vediamo agitarsi su quei banchi, in compagnia del suo amato gabbiano, gridare a pieni polmoni “Viva Sant’Agata e il Calcio Catania”.
Pur condividendo la sostanza contenuta nell’articolo mi pare doveroso sottolineare la povertà politica di Pogliese (e quindi della Destra meloniana) e di tutta la giunta comunale. Poi a proposito degli aggettivi applicati all’ex sindaco (mancato, sospeso, …) io lo definirei un sindaco fallito e basta.