Per comprendere davvero quanto la narrazione tossica sulla guerra in Ucraina stia contribuendo a mutare coscienze e sensibilità collettive, rendendo ancora più evidente e drammatico il processo di militarizzazione in atto all’interno delle istituzioni scolastiche italiane e della stessa didattica, vorrei iniziare il mio intervento raccontando un episodio che mi ha profondamente turbato come insegnante-educatore nonviolento e antimilitarista..
Insegno Scienze motorie in un Istituto comprensivo della città di Messina. Mi trovavo nel cortile di scuola il pomeriggio di una decina di giorni fa con le alunne e gli alunni di una classe di seconda media.
Al suono della campana della scuola dell’infanzia, sette-otto bambine e bambini di età compresa tra i 4 ei 5 anni iniziano a inseguirsi mimando azioni di guerra con mitra e kalashnikov.
Il “gioco” è palesemente violento, ben diverso nelle modalità e nei mezzi impiegati alle “sparatorie” tra indiani e cow boy a cui mi è capitato di assistere nella vita.
Corrono freneticamente dappertutto, qualcuno cade ed è prontamente raggiunto dal compagno che gli punta l’arma sul petto e poi spara urlando “adesso sei morto!”. Ed i morti vengono poi oltraggiati dagli altri compagnetti inseguitori, sbeffeggiati, umiliati.
Guardo attonito e temo che qualcuno possa farsi male davvero. Ma non interviene nessuno. Eppure in cortile ci sono le madri e all’uscita del portone anche qualche giovane insegnante. I miei ragazzi osservano divertiti. “Russia-Ucraina”, commenta uno di loro. Sì, come se fossimo alla finale del Mondiale di calcio in Qatar.
Può essere, mi chiedo con rabbia, che si siano tutti assuefatti alle immagini in tv delle bombe, dei corpi dilaniati sotto le macerie o riversi scomposti ai bordi delle strade? Poi, quando mitra e kalashnikov rischiano di trasformarsi in pericolosi bastoni per colpire volti, braccia e gambe, vedo una giovane madre che corre verso i bambini semi-accecati dall’eccitazione bellica.
Mi accorgo solo allora che oltre ad essere armati, uno di loro indossa un giaccone-mimetica. E’ l’ultima moda, scoprirò solo più tardi. La madre urla ai bambini di fermarsi. Finalmente, mi dico. E i bambini si fermano.
Sì, perché è l’ora del selfie collettivo. La madre-reporter allestisce i piccoli corpi in posa: alcuni in piedi bardati a mo’ di fedayn, o miliziani Isis o foreign fighters; un paio supini a terra, gli eroi sconfitti morti con le armi in pugno. Arrivano gli scatti. Un veloce scambio di ruoli e posti e qualche altro scatto ancora. Dulcis in fundo il capannello delle altri madri sopraggiunte per inviarsi cellulare-cellulare le foto-immagini.
Immagino che il kinder squadrone di morte sia poi apparso su decine di profili facebook e altri social o nei display di chissà quanti divertiti mariti, nonni, zii, cugini e amici. Anche questo è un drammatico segno dei tempi che viviamo.
Tempi di estetica e retorica bellica. Esaltazione dell’uccidere e della buona morte. Per dio. Per la patria. Per i sacri e inviolabili confini.
……………..
Questo l’inizio dell’intervento di Antonio Mazzeo, docente e peace researcher, al convegno CESP (Centro Studi per la Scuola Pubblica) promosso dai Cobas Scuola Sicilia a Palermo su ASL/PCTO, Un bilancio del loro svolgimento e delle ricadute sui processi didattici.
In particolare, la relazione del ricercatore siciliano si è occupata del protocollo d’intesa tra l’USR Sicilia e il Comando Militare dell’Esercito. Nei prossimi giorni sintetizzeremo quanto dibattuto nel convegno, oggi proponiamo solo queste considerazioni introduttive che, a nostro avviso, denunciano, con chiarezza ed efficacia, quanti danni ‘collaterali’, oltre a morte e distruzione, siano prodotti da ogni conflitto militare, a partire dal peggiore: considerare ‘normale’ la guerra.
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