Il tempo non è un elemento neutro, neanche quello passato dietro le sbarre, ed “anche chi si è macchiato dei più efferati delitti può rivisitare in modo critico il proprio vissuto”.
Lo afferma Alessandra Dolci, procuratrice aggiunta della direzione distrettuale antimafia (DDA) di Milano, intervistata da Martina Mirone nella diretta ‘Mezz’ora con’ dell’Associazione Memoria e Futuro
Pur riconoscendo l’importanza di questo presupposto, Dolci, che da anni si occupa di ‘ndrangheta’, Manifesta delle perplessità nei confronti della sentenza emessa dalla Corte di Strasburgo (Marcello Viola contro Italia) che ha ‘bocciato’ il cosiddetto ‘ergastolo ostativo’, vale a dire quella parte della legge che impedisce al condannato che non collabora con la giustizia di usufruire dei benefici penitenziari. La legge dovrà pertanto essere riscritta entro il 10 maggio 2022.
I giudici della Corte di Strasburgo, a sua parere, pur riconoscendo la pericolosità del fenomeno mafioso, non ne hanno forse l’esatta percezione. Alcuni degli assunti su cui si fonda la loro sentenza potevano, infatti, essere smentiti.
Innanzi tutto essi hanno ritenuto che la scelta di non collaborare con la giustizia possa essere non libera, in quanto determinata dal timore di esporre a pericolo la vita propria e dei propri familiari. Sarebbe stato importante spiegare ai giudici di Strasburgo che in Italia c’è una legge che garantisce protezione ai collaboratori di giustizia e ai loro familiari.
La Corte afferma, inoltre, che anche chi collabora può farlo per motivi opportunistici e non per dissociarsi veramente dalla organizzazione di appartenenza. E’ mancata, in questo caso la esatta contezza che la rescissione dei rapporti con l’associazione di appartenenza rappresenta la più grave violazione del codice ‘deontologico’ dell’organizzazione e viene sanzionata con la morte.
L’appartenenza (Dolci si riferisce soprattutto alla ‘ndrangheta di cui ha diretta esperienza) ha un carattere irreversibile, da cui non è possibile tornare indietro. Ciò non toglie che, a parere di Dolci, quanto affermato da Strasburgo sia, in via teorica, condivisibile perché non si può negare ad un uomo la speranza.
In pratica, però, bisogna capire bene quali prospettive si aprono dopo questa sentenza, e dopo le due sentenze della Consulta, che ha dichiarato incostituzionale l’esclusione dai benefici penitenziari (liberazione condizionale, lavoro all’esterno, permessi premio, semilibertà) per coloro che non collaborano con la giustizia. Vale a dire quanto previsto dall’art. 4 bis, comma 1, dell’Ordinamento Penitenziario.
Adesso non esite più la presunzione assoluta di pericolosità sociale, che consentiva al Tribunale di Sorveglianza di dichiarare inamissibili le istanze per i permessi premio, o altri benefici penitenziari, avanzate dal condannato che si rifiuta di collaborare.
Indietro non si può tornare, anzi Dolci considera questo passaggio una sorta di messa alla prova della tenuta del nostro ‘sistema giustizia’.
Non essendoci più la presunzione assoluta di pericolosità, toccherà ai giudici dei Tribunali di Sorveglianza la responsabilità di valutare la pericolosità relativa del condannato.
Ecco perché, a suo parere, è fondamentale stabilire, in modo chiaro e univoco, i criteri a cui il Tribunale di Sorveglianza deve attenersi.
Sull’accesso ai benefici penitenziari, la Corte Costituzionale ha messo paletti molto stringenti stabilendo che il condannato debba fornire elementi concreti che permettano di escludere non solo l’esistenza di collegamenti attuali con la criminalità organizzata, ma anche il pericolo di un loro ripristino.
Le preoccupazioni non mancano, come dimostra la recente sentenza della Corte di Cassazione che ha annullato con rinvio un provvedimento del Tribunale di Sorveglianza che aveva rigettato una richiesta di permesso premio perché il condannato non aveva fornito seri elementi fattuali sull’assenza di collegamenti con l’organizzazione mafiosa.
Trattandosi di un condannato con 24 anni di reclusione alle spalle, a Dolci è sembrato poco convincente che la Corte di Cassazione motivasse l’annullamento con l’assenza di procedimenti penali a carico del detenuto o di segnalazioni di polizia etc, tutti elementi validi sul piano logico ma poco significativi per un detenuto in carcere da più di venti anni.
Si rischia così che tutti i detenuti possano godere dei benefici penitenziali senza che si effettui una verifica seria, concreta dei collegamenti con l’organizzazione criminale.
Il progetto di legge che deve essere approvato entro maggio di quest’anno, appare a Dolci, che lo ha esaminato, un buon compromesso, abbastanza condivisibile.
La convince che il Tribunale di sorveglianza debba disporre accertamenti patrimoniali sul condannato e sul suo nucleo familiare. E’ importante verificare come la famiglia si sia mantenuta durante il periodo della detenzione, considerato che, come sappiamo, l’organizzazione mafiosa provvede al mantenimento delle famiglie dei detenuti mettendo in atto un vero e proprio welfare mafioso per chi non si dissocia.
Altro elemento importante sono i colloqui. Per chi è nato e cresciuto in un contesto mafioso, soprattutto di ‘drangheta, dove prevalgono i vincoli di sangue, bisogna verificare se le persone venute a colloquio siano indagate o condannate per attività mafiose.
In sintesi, c’è un gran lavoro da fare per i pubblici ministeri, le DDA, la procura nazionale antimafia, che dovrebbero impegnarsi ad evitare i pareri standard, e anche per le forze di polizia impegnate nei controlli, come nel caso di concessione di permessi premio che sono spesso premessa per la richiesta di liberazione condizionale.
Non bastano i bellissimi principi, conclude Dolci, essi vanno riempiti di significato. “Sappiamo di soggetti, ed io ne ho esperienza, che sono stati silenti per 20 anni, e poi si sono messi a disposizione per commettere omicidi”.
Oltre tutto, concedere benefici anche a chi non collabora fa venir meno un grosso incentivo a collaborare con la giustizia, che è stato fondamentale soprattutto nei confronti di Cosa Nostra.
Un ulteriore passo avanti sarebbe quello di porre la competenza in materia di accesso ai benefici penitenziari, per chi ha commesso reati ostativi, in capo ad un solo Tribunale di Sorveglianza, in modo che venga data una interpretazione uniforme delle norme.
Si tratta di una questione delicata perché “i colleghi dei tribunali di Sorveglianza affermano di essere in grado di assumersi questa responsabilità che, per quanto gravosa, è parte del loro lavoro. Ma non è facile decidere sulla amissione ai benefici penitenziari di soggetti che si sono macchiati di gravissimi delitti di mafia”.
Sulla questione si deve avviare una riflessione su tutto il territorio nazionale. Così come – prosegue Dolci – bisogna tenere vivo il dibattito sul tema mafia, intorno al quale è venuta meno la tensione emotiva avvertita, all’indomani delle stragi di mafia, dagli stessi magistrati e da tutto il paese.
Si rischia oggi di tornare ad una banalizzazione del fenomeno mafioso, al modo di vedere la mafia che dominava “prima delle indagini dei colleghi palermitani”, tanto più che oggi la strategia adottata dalle organizzazioni mafiose è quella di mimetizzarsi nel tessuto economico-sociale, ricorrendo alla violenza solo in casi eccezionali.
Quuesta strategia fa percepire la mafia come meno pericolosa, trascurando che “anche se in via residuale, la violenza è il vero brand della mafia e non verrà mai meno”.