Nazra Festival a Catania, uno sguardo sulla Palestina

Ancora una volta, come già accade da alcune stagioni, Catania ha avuto la possibilità di ospitare una tappa della tournée italiana del Nazra Palestine Short Film Festival, grazie alla collaborazione tra il Cinestudio del cinema King e le Associazioni AssoPace Palestina, Libera, Pax Christi, UDI.

Si tratta di un evento che, per diversi motivi, va assumendo ogni anno una rilevanza sempre più marcata, malgrado le difficoltà legate alla pandemia che hanno indotto a sostituire la tradizionale premiazione veneziana con un’edizione online.

Il Festival viene, infatti, a colmare, almeno in parte, la rarefazione sempre più accentuata di informazioni sull’occupazione israeliana della Palestina.

Ma c’è anche da dire che il livello delle proposte cinematografiche è cresciuto negli anni, fino al punto da rendere interessante l’aspetto artistico dei film almeno quanto quello sociale e politico.

Le difficoltà organizzative locali e la durata non sempre brevissima dei corti hanno determinato una selezione ridotta a cinque titoli, tutti davvero belli, il cui denominatore comune può forse essere riconosciuto nel tentativo (non sempre riuscito) di costruire occasioni di resistenza nonviolenta alle sopraffazioni del Paese occupante.

I nostri protagonisti – bambini intraprendenti, adolescenti con l’amore per il teatro, donne dallo sguardo indipendente, famiglie cui viene negato il diritto alle piccole felicità, giovani disabili che non si arrendono – ci dicono quanto sia difficile la situazione in Cisgiordania e a Gaza, ma nello stesso tempo ci confermano che la voglia di resistenza non si è ancora spenta.

Così è per Yasmine in The Present (2019, 24’), la bambina felice ed orgogliosa di poter accompagnare papà a fare la spesa (in realtà c’è anche da acquistare un regalo per la mamma, un nuovo frigorifero che avrà un ruolo chiave nel finale). La regista Farah Nabulsi ci mostra l’impossibilità di essere normali di una famiglia palestinese di fronte alla negazione della libertà di movimento.

Qualche anno di più ha Abeer Ahmed, la giovane del campo profughi di Jabaliya (striscia di Gaza) che ci guida nelle fasi di realizzazione dello spettacolo teatrale tratto dalla realtà nel film documentario A Play Before the Bombs (2021, 12’) di Roger Glenn Hill, Anne Paq e Anas Hamra. Anche in questo caso il finale è tragico, con l’annientamento fisico di un luogo dove si faceva cultura.

Ancora donne le protagoniste del terzo corto, Tears of Roses (2020, 21’) di Emad Abdulrahman. Fatima e Lamiaa (operatrici sanitarie) e Maryam (giornalista), si recano tutti i venerdì alla Grande Marcia del Ritorno
presso Khan Younis (ancora striscia di Gaza) per protestare contro le violenze israeliane e per dare una mano a curare i feriti. Donne che riescono ancora a sorridere, dopo il pianto per la perdita dei loro cari, per non arrendersi, per continuare a sperare.

Un’altra famiglia alla quale viene impedito di essere felice è quella di Hajez (Giordania 2020, 14’). Basato su una storia vera ricostruita con semplicità e tenerezza nella prima parte, quando la famiglia (papà, mamma e due figli maschi) si prepara a visitare un parco di divertimenti ma deve fermarsi ad
un ceckpoint (l’ “haiez” del titolo, in arabo) dove la tragedia arriva improvvisa.

Si chiude con un altro corto documentario che ci trasmette l’ottimismo di chi vuol continuare ad ogni costo. E’ il caso della squadra di calcio amputati della striscia di Gaza, in Francia per disputare una partita con la Nazionale amputati francese in Gaza, one football one leg (Francia 2020, 20’) di Patrice Forget. E’ l’occasione per conoscere le storie di questi ragazzi coraggiosi privi di pietismi autocompiaciuti, contenti della loro esperienza e mai rassegnati ad una condizione causata dalle violenze dell’esercito occupante.

Se il bilancio cinematografico è molto soddisfacente, si pongono ogni anno di più il problema della fruizione e quello di una partecipazione che non sia solo emotiva ma occasione di resistenza attiva ed appoggio concreto alla tragedia palestinese. Se lo scarso numero di spettatori (e fra questi difficile trovare qualche giovane) può trovare spiegazione nel complicato periodo sanitario e forse anche nel poco tempo a disposizione per la diffusione dell’evento, resta comunque un sapore amaro, ogni anno (come ogni giorno della storia che viviamo) nel sentirci sopraffatti da violenze, occupazioni, negazioni dei più semplici diritti umani ai quali rischiamo di abituarci come ad un cliché.

Per evitare che accada, bisogna che tutti torniamo a scandalizzarci, a voler capire, a voler intervenire sul corso di una storia che non vogliamo subire.
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