“Pippo Fava muore il 5 gennaio del 1984. Gli sparano cinque colpi alla testa. Tutti mirati alla nuca. Per ammazzarlo e per sfregiarlo.
Chi nasce al Sud sa bene che non tutti i modi di ammazzare sono uguali. Alle mafie non basta eliminare. Nella modalità della morte è siglata una precisa comunicazione. Giuseppe Fava, Pippo per chi lo conosceva, lo sfregiano sparandogli in testa.
A condannarlo furono i nomi e i cognomi che non ha mai taciuto. A condannarlo, la sua vita professionale: una sequenza di decisioni coraggiose. A condannarlo sono tutti i
suoi articoli.
Ma uno più di tutti, scritto un anno esatto prima che lo ammazzassero, quello che forse aveva fatto traboccare l’ira di Nitto Santapaola: I quattro cavalieri dell’apocalisse mafiosa.
Ma la morte di Pippo Fava non termina con quegli spari. Non si esaurisce con quel singolo atto di violenza. La si stava preparando da tempo e sarebbe continuata per molto tempo ancora. Per evitare che diventi un simbolo, comincia una vera e propria campagna di delegittimazione in cui si mescolano, con perizia, verità e menzogne.
Una campagna menzognera i cui responsabili non sono i soli assassini. Non c’è alcuna volontà di indagare e questo lo si capisce subito, il giorno stesso del funerale, il sindaco di Catania dichiara che: ‘Catania è una città che non ha la mafia. La mafia è a Palermo’.
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L’odio che da allora in poi il territorio di Catania riversa sulla memoria di Giuseppe Fava è paragonabile a un secondo omicidio. Poliziotti e politici, notabili e persone qualsiasi, tutti pronti a ripetere che non era un omicidio di mafia, tutti a insinuare la pista del delitto passionale. Tutti a insultarlo con la più degradante delle balle: misero in giro la voce che fosse un ‘puppo’, cioè un omosessuale pronto ad adescare ragazzini fuori dalle scuole.
Voci che vogliono creare intorno un’ aura di sospetto, allontanare il peso infamante del sangue versato. A difenderlo resta solo quella parte di Catania per cui l’impegno contro la mafia è istinto di pancia più che vanto ideologico.
Soltanto dieci anni dopo, nel 1994, c’è una svolta nelle indagini. Un pentito, Maurizio Avola, comincia a parlare e si autoaccusa dell’omicidio Fava. Racconta di aver fatto parte del gruppo di fuoco permettendo così di riaprire il caso.
Pippo Fava oggi va riscoperto. Andrebbe riscoperto non come simbolo, non come giornalista, ma come scrittore: perché nei suoi romanzi ha raccontato la sua terra scardinando l’immagine folkloristica dominante della Sicilia, tracciando invece un percorso narrativo di analisi antropologica assai più complesso e variegato”.