La notizia del ritiro delle truppe americane dall’Afghanistan e il ritorno dei Talebani a Kabul hanno riportato le lancette della storia indietro di venti anni e hanno riacceso il ricordo della giovane giornalista catanese Maria Grazia Cutuli, inviata del Corriere della Sera, barbaramente uccisa a Sarobi sulla strada di Kabul il 19 novembre 2001.
Dopo venti anni i suoi articoli, raccolti nel volumetto “Il cielo degli ultimi”, pubblicato dal Corriere della sera, risaltano sia per l’ attualità, relativamente al ritorno dei Talebani in Afghanistan e alla loro politica oscurantista e feroce, sia per la molteplicità dei luoghi da lei visitati nell’arco della sua breve ma intensa attività giornalistica, dal 1992 al 2001: dalla Cambogia a Sarajevo all’Albania, all’Iraq, a Timor Est, all’Africa, al Medio Oriente, all’Afghanistan al Pakistan.
Nata a Catania nel 1962, dopo aver conseguito una laurea in filosofia e dopo le prime esperienze giornalistiche su quotidiani catanesi, negli anni ’80 approda a Milan. Si forma professionalmente e conosce varie realtà di lavoro, come quella realizzata con l’Agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di rifugiati e che le fa scoprire l’interesse per la politica internazionale. Così, spesso utilizzando ferie personali, si reca nei luoghi più martoriati e flagellati dalle guerre nel mondo.
“A un certo punto mi è sembrato che il giornalismo non bastasse per capire lo strazio della guerra – scrive la giornalista – volevo andare più a fondo, superare la schizofrenia del cronista che rimane spettatore di tragedie che non gli appartengono”.
E’ con questo spirito che racconta e descrive gli orrori della guerra con uno sguardo empatico e non inquisitore, senza puntare il dito né giudicare in maniera affrettata.
Nel 1997 passa al Corriere per essere assunta nel 1999 e solo nel 2001, post mortem, le verrà riconosciuta la qualifica di inviata.
E’ probabile che quel reportage sulla scoperta di gas nervino all’interno di una base militare di Bin Laden, abbandonata dopo la ritirata da Jalalabad, possa averla condotta alla morte insieme ai suoi colleghi Julio Fuenty di El Mundo, Harry Burton e Azizullah Haidari dell’Agenzia Reuters. Ma forse non credeva di trovarsi in pericolo perché nell’ultima telefonata alla madre la rassicura dicendole che i talebani sono andati via. E invece…
Dunque non una fredda cronista di guerra e di genocidi, ma un’attenta osservatrice della società e dei costumi, come nel caso degli articoli scritti dopo la caduta del regime talebano sulle donne afghane, che rappresentano un vero spaccato di vita quotidiana.
Dalle attiviste del Rawa (associazione femministe afghane) come Skibeda, 25 anni, che combatte contro ogni fondamentalismo islamico, a Bela di 15 anni che ripete di essere felice di frequentare la madrassa femminile di Peshawar, una scuola coranica definita “gineceo del fanatismo”, e pronta nel nome di Allah a combattere la Jihad. Ma gli occhi le brillano quando ammette che le piacerebbe fare la giornalista!
C’è Sodoba che, sfruttando il burqa, passa la frontiera per entrare clandestinamente in Afghanistan e, insieme alle compagne, mina dal basso il bastione di Allah portando cibo e medicinali, organizzando scuole informali per le bambine, ma soprattutto parlando di diritti umani.
“Non è il velo il nostro problema”, quello che vorrebbero queste piccole Mata Hari è un paese democratico.
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