Mimmo Lucano, ex sindaco di Riace, è stato condannato a 13 anni e due mesi di carcere per reati collegati a quell’attività di accoglienza e integrazione dei migranti divenuta un modello apprezzato in tutto il mondo, come scrive Domenico Gallo sul suo blog.
Sulla sentenza di condanna, di cui ancora non conosciamo le motivazioni, pubblichiamo oggi le riflessioni di Ettore Palazzolo, già docente di diritto nell’Università di Catania.
Sconcerto e sbigottimento ha provocato in tanti la sentenza di condanna di Mimmo Lucano.
Sappiamo bene che da sempre diritto e giustizia (ricordiamo l’Antigone di Sofocle) non coincidono e tuttavia quando vi è una divaricazione così marcata una riflessione non può essere evitata, anche in punta di diritto.
Vi è stato un accanimento giudiziario? Nell’ovvio rispetto che si deve a tutte le sentenze ed ai giudici che le hanno emesse, i pubblici ministeri D’Alessio e Permugnan appaiono magistrati seri e indipendenti (il primo di Magistratura Democratica e il secondo sensibile al tema dei migranti e già volontario in Africa), e quindi l’ipotesi dell’accanimento, legata a pregiudizio ideologico, sembra doversi escludere. Questo non significa che siano del tutto esenti dal prendere anche delle cantonate.
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Quanto al Presidente del collegio giudicante, Fulvio Accursio, anche lui magistrato di tutto rispetto, c’è un’anomalia: a quel posto il CSM aveva, all’unanimità, deciso per un giudice donna, Gabriella Reillo, la quale subito dopo aveva rinunciato all’incarico (come mai?). Rimasto l’unico candidato, Accursio è stato scelto quale Presidente del Tribunale di Locri.
Sarebbe peraltro interessante sapere come tali magistrati (PM e Giudici) si siano comportati, nel recente passato, in occasione di indagini e processi contro i “colletti bianchi” e soprattutto contro la ndrangheta, che nella zona di Locri e Riace non è certo assente e inattiva.
Si potrebbe anche fare riferimento agli articoli sul Guardian e sul New York Times o al servizio della BBC, che certamente non costituiscono prove di non colpevolezza, ma avrebbero fatto notare eventuali elementi poco chiari o ambigui nell’esperienza di Riace.
Le considerazioni che intendo fare, nell’attesa delle motivazioni della sentenza, riguardano però il piano puramente tecnico.
I reati a cui il dispositivo della sentenza fa riferimento sono indubbiamente gravi: peculato, concussione, favoreggiamento di immigrazione clandestina, truffa, associazione a delinquere, ecc., per non parlare della turbativa d’asta, per aver dato in concessione a delle cooperative, per una modica cifra, lo smaltimento dei rifiuti urbani, trasportati da asinelli.
La sommatoria dei reati comporta una pena che supera, talvolta in maniera consistente, quella mediamente attribuita ad altri reati particolarmente odiosi, quali stupro, associazione mafiosa, strage, omicidio preterintenzionale, ecc.
Ma c’è un altro fattore, per i reati individuati viene stabilito il massimo della pena, e sono assenti esimenti (cause di non punibilità, ad es. lo stato di necessità, art. 54 del codice penale) ed attenuanti, anche quelle generiche, che non vengono negate a nessuno.
E’ possibile che, nell’operato di Mimmo Lucano, vi siano state delle irregolarità, innanzitutto amministrative, sanzionabili mediante ricorso al TAR e alla Corte dei conti. Può anche darsi vi siano stati anche alcuni reati di modesto rilievo. Ma stupisce ugualmente l’entità della pena, anche perché, a carico di Lucano – lo riconoscono un pò tutti – non vi è nessun’accusa che egli abbia intascato personalmente una, sia pure minima, somma di denaro.
Va poi osservato che il giudice per le indagini preliminari e la Cassazione avevano fortemente ridimensionato l’impianto accusatorio, quando furono inizialmente irrogate le misure cautelari. I pubblici ministeri ed i giudici non hanno voluto seguire l’orientamento della Suprema Corte. Non erano formalmente tenuti a farlo, dal momento che l’oggetto del giudizio era differente, ma da un punto di vista sostanziale non si può non rilevare tale discrepanza.
Per concludere, summum jus summa iniuria, dicevano gli antichi quando l’applicazione rigorosa del diritto può portare ad una profonda ingiustizia sostanziale. Bisogna allora rassegnarsi alla possibilità che si abbiano pronunce di questo tipo?
Per fortuna abbiamo una Costituzione ed una Corte costituzionale, la quale, tra l’altro, ha stabilito il cosiddetto criterio di ragionevolezza: a detta della Costituzione una legge non deve e non può essere irragionevole. E come la legge, anche un’interpretazione o applicazione della legge deve essere conforme al principio di ragionevolezza.
Questo principio può costituire quella clausola di salvaguardia, che consente di evitare che la divaricazione fra diritto e giustizia possa essere portata all’estremo limite. E il vizio di irragionevolezza può essere eccepito sia nel giudizio di Appello, sia dinanzi alla Cassazione e sia eventualmente dinanzi alla Corte costituzionale.
Da questo punto di vista mi ritrovo moderatamente ottimista sull’esito futuro del processo.
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