La camicia indossata da Rosario Livatino quando venne assassinato dalla mafia (21 settembre 1990) è stata collocata in un reliquario nella cattedrale di Agrigento. E’ accaduto ieri, domenica 9 maggio, durante la cerimonia che ha proclamato beato il “giudice ragazzino”.
Sin dagli anni ’80, Livatino si era occupato di mafia, ma anche di tangenti e corruzione.
Grazie a lui, per esempio, la procura di Agrigento aprì un’inchiesta su importanti imprenditori catanesi (Costanzo, Graci, Rendo) per fatture false o gonfiate e, sempre nello stesso periodo, insieme con altri colleghi, il giovane magistrato contribuì alla prima grande indagine sulla mafia agrigentina.
L’assassinio venne organizzato dalla Stidda agrigentina, in quel periodo in pessimi rapporti con Cosa Nostra. L’auto del giudice, che senza scorta si stava recando al tribunale, venne speronata dall’auto dei killer. Inutile la fuga verso i campi, venne raggiunto e ucciso a colpi di pistola.
Ci furono ben tre processi, anche perché nel frattempo vari collaboratori di giustizia contribuirono a definire meglio contorni e protagonisti. Un iter giudiziario lungo e complesso, tanto che a un certo punto i genitori del giudice rinunciarono alla costituzione di parte civile “Siamo stanchi di tutto – dissero – Siamo stanchi delle parole e anche dei processi”. Alla fine, comunque, sicari e mandanti sono stati condannati a vita.
Sin da subito ci furono molte polemiche. In particolare, i colleghi più vicini al magistrato denunciarono le condizioni non certo ottimali in cui erano costretti a lavorare i magistrati più esposti nel contrasto alle organizzazioni mafiose, ma anche le inerzie dello Stato e, addirittura, vennero espressi giudizi molto pesanti e autocritici come quello del giudice Francesco Di Maggio secondo cui “dietro la bara di Livatino non può nascondersi tutta la magistratura”.
Altrettanto esplosive le parole di Francesco Cossiga, allora Presidente della Repubblica: “Possiamo continuare con questo tabù, che poi significa che ogni ragazzino che ha vinto il concorso ritiene di dover esercitare l’azione penale a diritto e a rovescio, come gli pare e gli piace, senza rispondere a nessuno? Non è possibile che si creda che un ragazzino, solo perché ha fatto il concorso di diritto romano, sia in grado di condurre indagini complesse contro la mafia e il traffico di droga. Questa è un’autentica sciocchezza! A questo ragazzino io non gli affiderei nemmeno l’amministrazione di una casa terrena, come si dice in Sardegna, una casa a un piano con una sola finestra, che è anche la porta”. Solo dodici anni dopo, Cossiga smentì che queste affermazioni fossero rivolte contro Rosario Livatino.
Fu Giovanni Paolo II (nel 1993) a definirlo “martire della giustizia e indirettamente della fede”. Mentre Papa Francesco (nel 2019) lo ha definito “un esempio luminoso di come la fede possa esprimersi compiutamente nel servizio alla comunità civile e alle sue leggi; e di come l’obbedienza alla Chiesa possa coniugarsi con l’obbedienza allo Stato, in particolare con il ministero, delicato e importante, di far rispettare e applicare la legge”.
Un legame, quello fra fede e giustizia, che ritroviamo nelle parole del magistrato: “Il compito del magistrato è quello di decidere. Orbene, decidere è scegliere e, a volte, tra numerose cose o strade o soluzioni. E scegliere è una delle cose più difficili che l’uomo sia chiamato a fare. Ed è proprio in questo scegliere per decidere, decidere per ordinare, che il magistrato credente può trovare un rapporto con Dio”.
Fu probabilmente anche per questo legame che i mafiosi scelsero di uccidere un giudice che ritenevano inavvicinabile. Senza dimenticare l’opaco clima generale nel quale operava.
Come, infatti, ha scritto Nando dalla Chiesa: “Livatino e la sua storia sono uno specchio pubblico per un’intera società e la sua morte, più che essere un documento d’accusa contro la mafia, finisce per essere un silenzioso, terribile documento d’accusa contro il complessivo regime della corruzione”.