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Per il Sud che deve crescere, analisi e proposte

Quali sono i nuovi termini della Questione meridionale e quali risposte si possono prefigurare, approfittando delle risorse che il Recovery Fund (RF) dovrebbe mettere a disposizione?

Attorno a queste domande si è svolto il secondo appuntamento del Forum per il Mezzogiorno dell’Associazione Memoria e futuro, che ha visto la partecipazione di Gianfranco Viesti, economista, Emanuele Felice, storico dell’economia, e Fabrizio Barca del Forum diseguaglianze e diversità.

La questione meridionale è cambiata perché è cambiato il quadro europeo, caratterizzato adesso, in primo luogo, da un grosso polo manifatturiero che si è costituito al centro dell’Europa ed è riuscito ad attirare la fetta più grossa degli investimenti.

Il processo di terziarizzazione e digitalizzazione, che è in corso, sta dando la possibilità alle grandi e medie città europee di compensare la perdita delle industrie.

A fronte di questi sviluppi il Mezzogiorno non è stato capace di attuare un ‘adattamento virtuoso’, essendo una delle zone con i livelli di istruzione più bassi, condizione aggravata dal progressivo invecchiamento della sua popolazione e dalla migrazione dei giovani più qualificati.

La situazione delle infrastrutture di collegamento e di connessione la rendono, inoltre, sostanzialmente isolata sia del resto dell’Europa sia all’interno della stessa Italia.

La crisi attuale ha reso ancora più evidente che le dinamiche economiche, lasciate a se stesse, portano a una polarizzazione dei fenomeni di sviluppo, per cui le zone sviluppate lo sono sempre di più, così come le periferiche.

Ciò nonostante persiste ancora l’idea neoliberista che le periferie possano risollevarsi da sole, inserendosi con le loro risorse nelle dinamiche di mercato, senza che ci sia un intervento pubblico che elabori un quadro complessivo di sviluppo nazionale e crei almeno le precondizioni, interne (es. potenziamento delle infrastrutture) e interne (una politica industriale che consenta di superare il gap iniziale).

La prevalenza di questa tendenza di pensiero, nell’ultimo ventennio, ha avuto esiti sempre più deleteri: nella complessiva diminuzione delle risorse pubbliche, fra il 2008 e il 2018, la spesa della Pubblica Amministrazione (PA) è stata di -8,6% al Sud e di +1,4% al Nord, con riduzioni sia quantitative che qualitative che hanno riguardato molti ambiti: servizi sociali, scuola, università, trasporti, sanità.

Adesso, l’obiettivo di ridurre le disparità sembrerebbe essere al centro del Piano di rilancio al punto che sono proprio i divari economici e sociali interni ad essere stati assunti come criterio di ripartizione delle risorse europee, e ciò ha consentito all’Italia di essere destinataria della fetta più consistente.

Ma il condizionale non è usato a caso e per diversi motivi. Manca, tra le forze politiche impegnate in contese elettoralistiche di corto respiro, una visione progettuale di lungo periodo.

Le regioni e i centri di interesse più forti premono per intercettare le risorse a loro favore: non si spiega altrimenti perché la Lega e Forza Italia, da un lato, e la Confindustria dell’aggressivo Bonomi dall’altro, si siano schierati con entusiasmo a fianco del governo Draghi.

Continua inoltre a persistere il fallimentare mito del Nord-locomotiva e la teoria dello ‘sgocciolamento’ per cui bisogna concentrare le risorse nelle zone più sviluppate da cui poi, per sovrabbondanza, qualcosa verrà fuori anche per quelle che lo sono meno. Gli interventi pubblici, in questa prospettiva, devono solo accompagnare le dinamiche di mercato

Esiste, infine, anche il partito dei ‘realisti’ per cui, dati anche i tempi ristretti, servono progetti credibili e immediatamente cantierabili con amministrazioni capaci di gestirli, condizioni che si trovano più facilmente al Nord, dato che il Sud ha già ampiamente dimostrato di non essere capace di spendere i tanti fondi strutturali finora disponibili.

Se queste posizioni dovessero prevalere, a cosa rischia di ridursi il Recovery Fund per il Sud?

A nobili ma inconcludenti dichiarazioni di principio; a quote di riparto anche rilevanti, ma non verificabili se non ex post; a vecchi progetti già in corso, rifinanziati con le risorse del RF ma senza che siano dichiarate le quote ‘liberate’ dei vecchi finanziamenti; a progetti territorialmente vincolati e, in larga parte, già finanziati da fondi nazionali ed europei.

Cosa occorrerebbe fare, allora, per non restare insabbiati in questa deriva?

Nell’immediato è possibile recuperare i segmenti più significativi del Piano per il Sud che il governo Conte 2, col suo ministro Provenzano, aveva impostato.

Per esempio, una politica di sconti fiscali – per 10 anni e a decrescere – per le imprese che operano al Sud, basata sul presupposto di più alti costi di contesto (infrastrutture carenti, PA meno efficiente, capitale umano meno qualificato, capitale sociale meno adeguato, presenza del grande crimine, ecc.).

Resta fermo che l’ideale è adoperarsi per ridurre progressivamente questo handicap, azione che naturalmente richiede molto più tempo, ma è su questo obiettivo che bisogna puntare con le risorse del RF.

L’elenco potrebbe essere molto lungo, ma per restare ai fattori imprescindibili occorre pensare a ringiovanire e potenziare la PA, intervenire a tappeto sulle infrastrutture di trasporto e telematiche, migliorare le infrastrutture sociali (scuola, servizi sociali, welfare, sanità), sfruttare la grande risorsa delle energie rinnovabili, perché fortemente legata alle risorse del territorio e perché potrebbe dare origine ad una interessante filiera produttiva, tenendo conto delle potenzialità che posseggono alcuni insediamenti produttivi (a Catania, Bari, Napoli).

Non meno importante, anzi ha una validità strategica, sarà la definizione del metodo di lavoro per attuare questi interventi, tenendo conto che l’intervento speciale deve essere capace di incidere e cambiare il funzionamento dell’intera massa delle risorse ordinarie.

Occorre, cioè, che nel Piano di Rilancio siano inseriti solo progetti chiaramente individuati e territorialmente localizzati; che per ogni progetto siano indicati chiaramente i risultati attesi e misurabili; che siano costantemente attivi gli strumenti di controllo e monitoraggio.

Avviare un grande dibattito pubblico per coinvolgere le organizzazioni della società civile e favorire la creazione di una nuova classe dirigente locale adeguata alla situazione, saranno le pre-condizioni politiche perché questi interventi non finiscano nell’elenco delle grandi incompiute o, ancora peggio, nella voragine dello spreco clientelare.

Leggi anche “Ricostruire l’Italia, con il Sud” (Il Mulino)

Argo

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