“That’s the press, baby”, “E’ la stampa bellezza”. Nel film il direttore-Bogart rivendicava il diritto all’informazione contro chi avrebbe voluto zittire i reporter. Il nostro quotidiano locale sembra muoversi nella direzione opposta, “essere portavoce della élite politica di ieri e di oggi”, come evidenzia Antonio Fisichella, con precisi riferimenti a quanto finora in esso pubblicato.
Fin dall’inizio della pandemia sulle pagine de La Sicilia si struttura un racconto i cui canoni non verranno più abbandonati. Per un anno intero, dentro una crisi senza precedenti, abbiamo assistito sul quotidiano catanese al dipanarsi di un’informazione collaterale al potere politico regionale, al farsi quotidiano di un giornalismo embedded, “incorporato” ai salotti dei potenti.
Si legga l’articolo del 27 marzo 2020: l’occasione è la presenza del presidente della Regione nello studio di Barbara D’Urso, lo scenario tratteggiato dal cronista è quello di “siciliani che ascoltano Musumeci incollati alla Tv, di un ColonNello che ha usato bene i super poteri”, di un consenso plebiscitario (“i siciliani sono con lui”) e di un “Ruggero Razza ormai vero e proprio ministro della Guerra”.
Un anno dopo, nonostante gli innumerevoli inciampi cui è andato incontro il governatore (l’inchiesta che a maggio inflisse i domiciliari ad Antonio Candela coordinatore della task force per l’emergenza Covid, l’appalto sui dispostivi sanitari inadeguati, le anomalie sui dati sulla pandemia già emerse a giugno scorso, l’emergenza rifiuti…), il racconto agiografico viene riproposto. Anzi, se possibile rafforzato.
Prima andranno in pagine le cosiddette (già da Argo richiamate) “affinità marziali–elettive scoccate tra il generale Figliuolo, neo commissario per l’emergenza Covid-19. il primo governatore post missino dell’isola e il sub comandante con delega alla trincea pandemica”.
Dopo trovernno spazio i dubbi avanzati sulla tenuta dell’inchiesta sui morti spalmati: “In punta di diritto c’è una discreta probabilità che questa Covidopoli siciliana si risolva in una bolla di sapone”. Infine, saranno abbracciate e generosamente sviuppate le tesi del difensore di Razza (“l’assessore ha una posizione marginale, i dati li caricavano le Asp”).
Si confondono così piani diversi, mischiando responsabilità penale e responsabilità politica e morale, senza mai stabilire un confine netto tra presunzione di innocenza, che è propria di qualsiasi indagato, e le trasparenza politica e morale cui è chiamato a rispondere, non solo in un tribunale, ma al cospetto dell’opinione pubblica, chiunque occupi una posizione politica di primissimo piano.
Ma è attraverso questa commistione e alla presupposta fragilità (“in punto di diritto”) dell’inchiesta che si intende affermare, in via preventiva, l’innocenza tout court, penale e politica, dell’assessore Razza. Come se quelle parole orribili, quel tragico “spalmiamo i morti”, sia un banale “fraintendimento semantico” (affermazione del legale di Razza) e non un’autentica bestemmia contro il cielo, che fa a pugni con qualsiasi concezione della democrazia.
Le condizioni in cui si muove un governo, sotto ogni latitudine, sono difficilissime. La situazione è quel che è: uno stato sfasciato, burocrazia incapace (nella migliore delle ipotesi), anni e anni di tagli alla sanità e al welfare. Nessuno che abbia un minimo di cervello, in una situazione simile, può addossare tutte le responsabilità a Musumeci, né è auspicabile una critica aprioristicamente feroce contro il governo regionale.
Ma da qui ad un giornalismo che cancella, con un tifo da stadio, qualsiasi responsabilità, incapace di offrire un quadro realistico, intento ad osannare colonNelli, subcomandanti e spirti guerreschi di ogni tipo, ce ne corre.
Un po’ di misura e di equilibrio non guasterebbe. E invece manca, del tutto. Perché? E’ la conseguenza di un’infatuazione personale di un giornalismo abituato a frequentare i saloni dei potenti? E’ il frutto di uno stile effervescente e scintillante che fatica a trovare in sé bilanciamenti e proporzioni? Ma discutere intorno alla biografia, alle frequentazioni e allo stile della firma, sempre la stessa, di questi articoli importa davvero poco. E’ invece assai più utile, chiedersi dove affondino le radici di un simile modello di giornalismo.
E per fare questo dobbiamo, seppure brevemente, tuffarci nel passato, esattamente nella Catania degli anni ’60, quando, Salvatore Nicolosi, il più importante notista politico de La Sicilia descrive il neo sindaco Antonino Drago paragonandolo (nell’ordine): a “Lorenzo de’ Medici, al capitano Achab, a Vasco de Gama, al capitano Allistoun sul Narciso”.
Che differenza c’è tra le attuali rappresentazioni di colonNelli, di subcomandanti con delega alla trincea pandemica, di assessori – ministri della guerra, di pizzi magici, di rapporti politici tra il presidente e l’assessore trasformati in relazioni filiali in cui “un padre severo e pretenzioso, bacia il figlio nel sonno e quasi mai quand’è sveglio”.
Più “artistiche” e “letteraratureggianti” le agiografie degli anni sessanta, segno evidente di un giornalismo ancora legato a modelli aulici, più realistiche e crude quelle di oggi, in cui fa capolino anche il tentativo di coinvolgere emotivamente il lettore, proprio di un giornalismo che mischia generi e codici comunicativi e strizza l’occhio all’intrattenimento. Ma al di là di tali differenze, temporali e stilistiche, ciò che unisce le penne di entrambi i giornalisti è la vicinanza ai potenti, il loro farsi innocui portavoce delle élite politiche, di ieri e di oggi.
Ci sono interviste e interviste. Quelle di “mantenimento” che qualsiasi politico concede per routine e interviste che si tengono in momenti particolarmente significativi o difficili. A quest’ultima tipologia dovrebbe appartenere quella rilasciata da Roberto Bonaccorsi, vice sindaco di Catania all’indomani della condanna per peculato del sindaco Salvo Pogliese. Assistiamo invece a poco più di uno scambio di divertenti battute, attraverso le quali del “Tremonti di Giarre” conosceremo le relazioni politiche (Stancanelli, Musumeci, Razza, Lombardo) mentre la tragica condizione di una città piagata da una crisi senza precedenti, viene evocata, come in una rarefatta lontananza, attraverso le passioni architettoniche del vicesindaco, un non meglio identificato “senso del bello” e i suoi, non proprio trascendentali, trascorsi calcistici.
Proprio a questi ultimi viene consegnato lo scoppiettante finale dell’intervista, nel quale Bonaccorsi rivela “un segreto che non ha mai confessato al sindaco”: “Quando giocavo nel Giarre segnai un gol al Catania, in un’amichevole finita 2-2. Se Salvo l’avesse saputo, non mi avrebbe fatto fare il vicesindaco. E forse oggi non sarei qui…».
Si legga anche l’intervista rilasciata da Salvo Pogliese, dopo la condanna e la sospensione dalla carica di sindaco, che si trasformerà in una conferenza stampa senza contraddittorio. Con un giornalista che riduce la condanna ad una “disgrazia”, ci ricorda di propria iniziativa che il sindaco “ha donato dieci mila euro alla squadra etnea”, e ci regala un altro finale anch’esso a suo modo memorabile sulla grandissima fede agatina di Pogliese.
Tali interviste appaiono, più che momenti di approfondimento e di conoscenza della drammatica realtà cittadina, mezzi di comunicazione interne ai ceti dominanti, volte a disinnescare i temi più urgenti e controversi e intente ad offrire il volto più umano, normale e persino simpatico dei protagonisti.
Per quanto concerne le confutazioni in punta di diritto di indagini e inchieste della magistratura esse hanno una lunghissima tradizione sul quotidiano catanese (si guardi solo per un attimo agli anni ’80 e all’assoluzione preventiva di giudici, cavalieri del lavoro e alle afasie sui boss mafiosi del calibro di Santapaola). Un riflesso quasi condizionato che scatta ogni qualvolta l’occhio della magistratura si affaccia sulla condotta dei potenti. Il tutto all’insegna della piena commistione tra responsabilità penale e politica, tra procedura giudiziaria e dibattito pubblico.
Dibattito pubblico che però non si tiene mai, non trova mai modo di esplicitarsi in una perenne “notte nera delle vacche nere”, dove tutto è indistinto e opaco, non si viene a capo di niente all’insegna del “tutti colpevoli, nessun colpevole”. Un refrain antico e mai abbondonato che ritorna uguale a se stesso in ogni epoca e si annida tenacemente dentro i nostri giorni.
Ma davvero si pensa che 50 anni di monopolio informativo siano passati senza lasciare traccia? Senza improntare di sé il giornalismo di oggi? Davvero si pensa che quel giornale e quel giornalismo non abbia avuto un ruolo decisivo nella riproduzione di un blocco di potere fondato sulla rendita, la speculazione edilizia, aperto per sua natura alla presenza della mafia che ha condotto la città al disastro di oggi? Davvero si pensa che quel modello di sviluppo non si sia riprodotto in forme sempre nuove (si guardi ai centri commerciali) e non sia giunto fino ai nostri giorni? Davvero si pensa che quel grumo di interessi costituisca una parentesi transitoria, magari definitivamente chiusa, e non abbia prodotto esiti duraturi sul piano politico e su quello economico, ma ancor di più su quello sociale e culturale?
Davvero si pensa che le classi dirigenti estrattive, cioè quei ceti che pensano, come ci ricorda Fabrizio Barca, solo ad “estrarre risorse dal territorio a loro vantaggio e a far sì che tutto rimanga immobile affinché possano conservare senza intralci le loro posizioni dominanti”, se siano andate da Catania? Ma davvero si pensa che quel giornale, e quel giornalismo che ha dato loro voce, spazio e rappresentanza, sia passato invano nella formazione dello spirito pubblico della città?
Nessuna critica, nessun serio esame di coscienza è stato condotto e neanche tentato dal giornalismo catanese, né dagli intellettuali. Anzi, si assiste ad una pervicace riabilitazione di un passato che andrebbe invece rigettato. Quantomeno, con serietà e rigore, rivisto.
Si rilegga quanto ha scritto Antonello Piraneo, appena nominato direttore de La Sicilia, all’indomani delle dimissioni di Mario Ciancio Sanfilippo: “Siamo sempre noi, ci evolviamo nel solco della tradizione”. Ma è appunto quella tradizione a costituire un problema. E’ quella “tradizione” a far sì che ancora nell’estate del 2020 Gino Costanzo venga ricordato come un ”imprenditore illuminato, colpito dalla crisi edilizia”. Senza che si faccia il minimo cenno delle mille cointeressenze che legavano Costanzo a Cosa nostra siciliana.
Si legga la recente intervista della punta di diamante del giornalismo catanese, il compianto Tony Zermo: “Dopo l’omicidio Dalla Chiesa ci siamo svegliati, sulla mafia abbiamo fatto quattro pagine al giorno”. Peccato che non sia andata così e che i catanesi quelle quattro pagine al giorno sulla mafia catanese non le abbiano mai viste, prima, durante e dopo Dalla Chiesa. Fino alla morte di Fava e ben oltre.
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Ancora nel 2003 la notizia della sentenza definitiva della corte di Cassazione sul delitto del grande intellettuale catanese fu confinata in venti righe, in cronaca. Si legga ancora la stessa intervista dove si afferma che la “sottovalutazione della mafia era dettata dall’ambiente cittadino”, come se quell’ambiente e la sua opinione pubblica non fosse formata e informata da un giornale che agiva in un assoluto regime di monopolio.
Su questa riabilitazione del passato giornalistico è sceso il silenzio. Senza che si desse spazio ad altre voci.
Si leggano le motivazioni con le quali un tribunale della Repubblica ha restituito i beni a Mario Ciancio: “L’intero patrimonio dell’editore torni nelle sue mani ma – sottoscrivono gli stessi magistrati autori di un’ordinanza così favorevole sul piano economico – egli ha stretto rapporti di vicinanza, amicizia e cordialità con la mafia catanese”. Su parole così gravi e persino terribili è caduto un silenzio assoluto. Nessun dibattito, nessuna discussione pubblica. Mentre La Sicilia continua a liquidare le udienze del processo nelle pagine di cronaca in dieci righe.
Cosa c’è di “normale in tutto questo? Può dirsi “normale” un giornalismo che opera in queste condizioni? O si è di fronte ad un enorme patologia, che si finge di non vedere? Invece di dare risposte si continuano a scrivere, forse in modo più brillante e pirotecnico di un tempo, gli articoli di sempre, perpetuando così la funzione che quel giornale, fin dalle origini, ha svolto nella storia della città.
Ma se quel modo di fare giornalismo e se la stessa funzione di quel giornale non viene radicalmente messa in discussione, le macerie del passato continueranno ad ostruire il presente e le vie di un futuro diverso.
Ecco qui gli articoli nell’ordine in cui li abbiamo citati.
L’emergenza Coronavirus in Sicilia e il senso di Nello per la guerra (27/03/2020); Sicilia, il patto tra generale e colonNello: ora più medici e hub per le vaccinazioni (28/03/2021); Dati falsi, la “Covidopoli” siciliana una bolla di sapone o l’inizio della fine? Ed è già toto-assessore (31/03/2021); Dati Covid truccati: perché l’hanno fatto? Tutte le ipotesi sul possibile “movente” (01/04/2021); Catania, Bonaccorsi reggente low profile «Mi atterrò al programma di Pogliese» (02/08/202); Salvo Pogliese, il sindaco “congelato”: «Ma nel 2023 mi vorrei ricandidare» (24/09/2020)
Abbiamo sempre apprezzato la correttezza stampa di Argo che denuncia, con coraggio e precisione, le mafie delinquenziali e politiche che hanno ridotto Catania nell’ attuale sfascio economico, sociale ed occupazionale.
I nostri figli, nipoti e pronipoti in fuga alla ricerca di lavoro e futuro, ne sono ennesima provata consequenza.
Perché gli altri quotidiani nazionali non aprono una redazione a Ct? Questa è la domanda. Questa è la gravità. Perché il monopolio è creato da chi non interviene nell’informazione, non da Mario Ciancio.
Il problema individuato da Giuseppe Scatà è reale. I grandi giornali nazionali non sono certo innocenti su Catania (e il Sud), specie Repubblica.
Ma le responsabilità “esterne” giustificano il tipo di giornalismo nato e consolidatosi ne La Sicilia?
Casualmente l’articolo di Fisichella (che già ci aveva tolto il sonno col suo ottimo libro) è posto subito dopo quello su padre Apa.
Mi ha colpito l’ abisso tra i due stili di vita esaminati: l’uno predatorio e collaterale al potere e l’altro responsabile delle vite degli altri e libero da interessi che non fossero l’altrui bene.
Stendendo un velo pietoso sui salotti di Barbara D’Urso e i “fraintendimenti semantici” di Razza, riesco solo a considerare, facendo mia la bella espressione di Barca, che entrambi i modelli sono di uomini “ESTRATTORI” : l’uno di risorse del territorio a proprio vantaggio, l’altro di bene dal profondo di ogni incontro e coinvolgimento alla comune responsabilità verso tutto e tutti.
Quale modello è vincente ?
se sono l’unico a far brioche in tutta la città, potrò fare brioche buone come suole di scarpe e la gente mangerà solo quelle, credendo che siano davvero delle buone brioche. Nom sarò per nulla motivato a migliorarne la qualità. Insomma, se non c’è concorrenza, c’è La Sicilia, e nella carta stampata i grossi quotidiani si sono guardati bene dall’aprire una redazione catanese. Questo è il fatto grave.
la verità è che la concorrenza fa paura a tutti ed è più facile vivere senza che alcuno ti disturbi o commenti il tuo operato. Il giornalismo poi è terribilmente collegato con la classe al potere e con gli imprenditori emergenti per cui sono loro e solo loro che decidono degli investimenti e degli argomenti da trattare. La ribellione a questo punto è necessaria.E deve colpire tutti: sia chi fa le brioche e sia chi le mangia.