Si avvicina il secondo appuntamento del Forum sul Mezzogiorno organizzato dall’Associazione Memoria e futuro, per questo ci sembra opportuno riannodare le fila del discorso avviato lo scorso 19 febbraio, nel corso del webinar di cui si può riascoltare la registrazione a questo link.
Proviamo oggi ad offrirvi una sintesi, ed una nostra rielaborazione, degli spunti emersi dagli interventi di Adriano Giannola, presidente dello SVIMEZ, Isaia Sales, storico delle mafie, Tonino Perna, sociologo ed economista.
La stagione della Cassa per il Mezzogiorno, almeno nella sua prima fase, aveva cominciato a dare risultati apprezzabili in termini di dotazione di infrastrutture ma la sua politica industriale, a lungo andare, aveva mostrato diversi limiti e, soprattutto, si era dimostrata incapace di stimolare lo sviluppo di una imprenditoria locale sufficientemente robusta.
La successiva degenerazione in sterili politiche clientelari ne ha poi decretato la fine e la sostituzione, con l’avvento della stagione berlusconiana e leghista, con un neoliberismo in salsa padana, fondato sul modello del Nord-locomotiva, capace di trascinare, col suo sviluppo, le regioni più arretrate.
Oggi questo modello può considerarsi fallito, e gli studiosi più attenti sono concordi nell’osservare che anche il Nord si è fermato, ha perso e continua a perdere pezzi importanti del suo tessuto produttivo, si sta meridionalizzando e rischia di diventare, a sua volta, il Sud della Germania, come ha osservato recentemente Enzo Ciconte su Domani.
La politica fondata sull’accettazione delle diseguaglianze non ha pagato e appare sempre più chiaro che il problema del Mezzogiorno non può più essere separato da quello del paese nel suo insieme.
Sembra, addirittura, che anche l’Europa, col programma Next Generation EU, mettendo in discussione quel modello di sviluppo, stia cambiando prospettiva, se è vero che la metà dei soldi del Recovery fund sono destinati al Meridione: ciò significa che il Sud rappresenta una questione europea, cioè che il problema è l’Italia e, al suo interno, il Sud.
Ma con quali armi oggi il Mezzogiorno sta affrontando questo possibile cambiamento di strategia?
Il quadro non è incoraggiante. Oggi mancano luoghi di elaborazione politica e culturale e quei pochi che resistono sono animati da ultrasessantenni; tranne poche e coraggiose eccezioni, sembra che i giovani, ma anche le loro famiglie, non trovino soluzione diversa da quella dell’emigrazione, il cui dato ufficiale sembra addirittura sottostimato.
Non si tratta, tuttavia, di rivendicare parità di reddito – obiettivo difficilmente raggiungibile – quanto di battersi per il superamento delle diseguaglianze civili e per l’uguaglianza della qualità della vita: a uguali tasse devono corrispondere uguali servizi e quindi interventi di riequilibrio in materia di istruzione, sanità, servizi sociali, edilizia, infrastrutture di mobilità.
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L’affermarsi del regionalismo ha reso sempre più complicata la gestione della coesione nazionale ma soprattutto ha frammentato, indebolendola, la rappresentanza del Sud a livello istituzionale, con l’ulteriore aggravante di una Conferenza Stato-Regioni di fatto egemonizzata da Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna.
Verso quale direzione andare, allora? Non importa un rivendicazionismo sterile e fine a se stesso quanto discutere e contrattare in modo da influenzare le strategie complessive di utilizzazione del Recovery fund per determinarne la qualità degli investimenti.
Quali dovrebbe, allora, essere l’idea di fondo? Cominciare a pensare al Mezzogiorno non come se fosse una palla al piede da trascinare e far sopravvivere con le scolature di ciò che trabocca dal piatto ricco del Nord, ma come al secondo motore del paese, il cui sviluppo organico si ripercuoterebbe a favore di tutto il paese.
In questo quadro andrebbe anche affrontata la risorsa delle migrazioni, organizzandone i flussi, dato che sarà comunque necessaria una quantità di forza lavoro che l’attuale declino anche demografico non sarebbe in grado di fornire.
I campi di applicazione di questo nuovo modello di sviluppo sono molteplici e tutti ricchi di potenzialità.
Si tratta, ad esempio, di valorizzare la centralità geografica del Sud aperta verso i mercati dell’Africa. La prospettiva mediterranea, attraverso la valorizzazione dei porti meridionali (Gioia Tauro, Augusta, Taranto), potrebbe essere una carta vincente.
Perché, infatti, le navi cinesi preferiscono attraccare a Rotterdam? Per l’assoluta carenza delle strutture del contesto retroportuale e la mancata istituzione di zone economiche speciali.
Un ambito ancora tutto da scandagliare è quello dello sfruttamento delle risorse energetiche rinnovabili, di cui il Mezzogiorno è particolarmente ricco, senza dimenticare, tuttavia, che occorre essere particolarmente vigilanti, tenendo conto che quel poco che si è fatto, soprattutto nell’eolico, ha dovuto registrare una forte presenza di interessi mafiosi e che molte criticità stanno già emergendo nel settore del fotovoltaico. (leggi anche Recovery Clan di Mario Barresi)
L’altro grande settore di investimento dovrebbe riguardare il recupero delle aree interne, attuando una riforma agraria integrata che pensi anche al recupero del patrimonio edilizio in abbandono, a fornire servizi adeguati, a creare infrastrutture di collegamento con le zone costiere, per un’agricoltura capace di guardare al futuro.
Naturalmente il quarto pilastro su cui poggiare è il settore del turismo, ma un turismo di qualità, quello culturale in particolare.
Le idee e le
proposte, come si vede, non mancano, ciò che preoccupa è piuttosto
l’individuazione del soggetto politico capace di portare
Il prossimo appuntamento è per venerdì 19 marzo alle 17, sempre sulla pagina Facebook dell’Associazione Memoria e Futuro. Fabrizio Barca, del Forum diseguaglianze e diversità, Gianfranco Viesti, economista, ed Emanuele Felice, storico dell’economia, si confronteranno sul tema “Recovery fund: occasione storica per lo sviluppo del Mezzogiorno?”
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