Avere grandi quantità di beni culturali “in giacenza nei depositi degli Istituti periferici” (notare il linguaggio da bottegaio che fa passare l’idea che i depositi museali della Regione siano solo polverosi magazzini) e non sapere che farne se non cederli in uso ai privati “per una durata dai due ai sette anni”, con possibilità di rinnovo fino a quattordici anni.
Con tutti i rischi che ciò comporta in un paese dove solo il provvisorio è definitivo. Il tutto dietro pagamento di un non meglio definito corrispettivo che potrà avvenire, oltre che in denaro, anche attraverso la fornitura di beni e servizi destinati al patrimonio oggetto della concessione.
Questo, in estrema sintesi, il succo della tanto strombazzata ‘Carta di Catania’ e dei due decreti che la corredano (n. 74/GAB del 30.11.2020 e n. 78/GAB del 10.12.2020) con cui il leghista (sic!) Assessore regionale ai Beni Culturali e all’Identità Siciliana Alberto Samonà, sostenuto dal fattivo impegno della (in)dimenticabile ex Soprintendente dei Beni Culturali di Catania Rosalba Panvini, intendevano risolvere il problema.
Abbiamo scritto ‘intendevano’ perché, per fortuna, la Commissione Cultura dell’Assemblea regionale ha approvato la risoluzione di M5S-Pd e Cento Passi che impegna il governo Musumeci a ritirare i decreti in quanto costituiscono un grave pericolo e rischiano di apportare danni irreversibili al patrimonio culturale siciliano.
Ma l’allarme era stato tempestivamente lanciato, con un lungo e articolato documento, dalla Confederazione italiana Archeologi, che aiuta anche a capire l’incredibile retroterra che ha partorito un simile esito.
In un paese normale che non fa altro che riempirsi la bocca di “turismo, colonna portante dell’economia dell’isola”, questo grande patrimonio di beni culturali che resta a prendere polvere nei depositi delle Sovrintendenze sarebbe valorizzato mediante una rete di musei piccoli e grandi, generalisti e tematici, con esposizioni continuamente rinnovate a rotazione.
E il livello legislativo non manca e risale addirittura alla leggi regionali n. 80/1977 e n. 116/1980, solo che, come sempre, le buone leggi si scrivono, ma non vengono applicate.
Queste leggi disponevano la realizzazione nelle Sovrintendenze di una concezione pluridisciplinare di tutela del patrimonio culturale tramite un modello organizzativo fondato sulla compresenza di distinte competenze specializzate nel campo delle diverse tipologie di beni culturali: antropologi, archeologi, architetti, bibliotecari, naturalisti e storici dell’arte, affidate alla responsabilità di personale altamente qualificato.
Oggi questa ipotesi di ordinamento è stata di fatto affossata, con dei semplici provvedimenti amministrativi.
Intanto la struttura organizzativa degli Istituti di tutela è stata ridotta a due sole aree onnicomprensive, una ‘architettonica-antropologica-paesaggistica-storico artistica’; l’altra ‘archeologica-bibliografica’.
A partire dagli anni ’80, inoltre, nei ruoli tecnici dei Beni culturali è stato immesso in sovrannumero personale che non possiede i titoli professionali richiesti dalla normativa regionale e nazionale, diplomati e laureati che erano stati assunti presso il Genio Civile per espletare le pratiche della sanatoria edilizia del 1985.
In due successivi passaggi, questo stravolgimento è arrivato al suo apice.
Per prima cosa, quel personale che costituiva solo organico di fatto (per la legge del provvisorio/definitivo di cui sopra) è diventato di diritto; in secondo luogo, per effetto della legge di riordino della burocrazia regionale (L.r. 10/2000), tutto il personale laureato della Regione Siciliana venne inquadrato nel ruolo unico della dirigenza e tutto il personale diplomato, dai ruoli di ‘assistente tecnico’, venne promosso all’apice della carriera, nel ruolo di funzionario direttivo.
Fuori dal burocratese, è saltata qualsiasi corrispondenza tra profilo professionale, competenze specifiche e funzioni esercitate.
Risultato: è stato soppresso di fatto il ruolo tecnico dei beni culturali, e la tutela dei beni archeologici e storico-artistici, la direzione di gallerie d’Arte, parchi e Musei archeologici in Sicilia possono essere affidate, e lo sono di fatto, quasi esclusivamente, alla responsabilità di architetti, geologi o agronomi del ruolo unico della dirigenza.
E questo sebbene sia in servizio, da più di quindici anni, un buon numero di funzionari direttivi archeologi e storici dell’arte, assunti per specifico concorso.
Se si aggiunge poi che, nel corso di questi ultimi decenni, si è registrata una costante diminuzione delle risorse destinate al Dipartimento beni culturali siciliani, passate dai 500 milioni del 2009 ai soli 10 milioni degli ultimi anni e che, per dichiarazione dello stesso Assessorato, si è riusciti a impegnare dei fondi strutturali europei del Programma 2014-2020 solo 900.000 euro a fronte dei 65 milioni assegnati, lo sfacelo è completo.
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Come meravigliarsi, allora, che allo sbocco di questa tragedia, sia stata partorita la peregrina soluzione della ‘Carta di Catania’, che lo stesso Assessore Samonà ha pure avuto il coraggio di definire rivoluzionaria?
A onor del vero, nella premessa della Carta, si riconosce il fallimento dell’Amministrazione regionale nella gestione dei beni culturali, ma, invece di ammettere che la Regione sta di fatto abdicando al proprio ruolo istituzionale di tutela, conservazione e valorizzazione, si definisce ‘rivoluzionario’ un provvedimento che di fatto li affida a concessionari privati – che, improvvidamente, vengono anche definiti ‘destinatari costituzionali’-, mentre non è in grado nemmeno di distinguere chiaramente tra prestito per mostre, concessione in uso e concessione della valorizzazione.
A completamento dell’opera, la Carta prevede l’esternalizzazione a giovani professionisti e a studenti universitari in regime di tirocinio formativo, contrabbandando il tutto come valido contributo alla soluzione del problema occupazionale.
Che dire? Se questo è un paese normale, …