Mentre prosegue il processo contro Matteo Salvini, accusato di sequestro di persona per il caso della nave Gregoretti, il costituzionalista Ettore Palazzolo ci propone una riflessione che va oltre la cronaca interrogandosi sui limiti che tutti devono rispettare affinché non siano violati i diritti fondamentali dei cittadini.
In sostanza, è accettabile (e compatibile con la nostra Costituzione) che un Ministro e/o lo stesso Presidente del Consiglio, in nome di una presunta tutela di un interesse pubblico, adottino provvedimenti che annullano le garanzie individuali? Esiste ancora una chiara linea di demarcazione fra l’operato di uno Stato a democrazia costituzionale rispetto a quello di uno Stato autoritario?
E’ in corso il processo a Matteo Salvini, iniziato da una richiesta del Tribunale dei ministri del distretto di Catania.
Era stato, il 12 febbraio 2020, il Senato della Repubblica, Camera di appartenenza di Salvini, a bocciare l’o.d.g. con cui si intendeva negare l’autorizzazione a procedere contro di lui, in quanto la sua decisione di impedire, o comunquedi ritardare, l’approdo della nave della Guardia Costiera italiana, Gregoretti, sarebbe stata un atto politico, motivato dal perseguimento di un preminente interesse dello Stato.
Un via libera al processo, un esito ben diverso da quello dell’anno precedente, quando, in relazione al caso della nave Diciotti, Salvini era stato prosciolto definitivamente a seguito della negata autorizzazione a procedere da parte del plenum del Senato.
Queste due distinte vicende, insieme a numerose altre, ci offrono l’occasione per una riflessione sulla disciplina, costituzionale ed ordinaria, che, nel 1989, ha sostituito la precedente in materia di messa in stato di accusa di ministri per reati commessi nell’esercizio delle loro funzioni.
La questione che a me interessa affrontare, in relazione a queste vicende, non è tanto quella dell’imputabilità, o meno, di un ministro, nell’esercizio delle proprie funzioni, ma quella più generale: quali limiti incontra il potere di uno o più ministri, o dello stesso Presidente del Consiglio, nella propria attività di governo, nell’esercizio quindi delle proprie funzioni.
Quanto ai reati eventualmente commessi al di fuori delle funzioni, i ministri e il Presidente del Consiglio rispondono davanti al Giudice penale, come ogni altro cittadino.
La normativa originaria, modificata con Legge cost. n. 1 del 1989, prevedeva la messa in stato di accusa da parte di un’apposita Commissione inquirente (in realtà, a sua volta, accusata di insabbiare i procedimenti) e il giudizio da parte della Corte Costituzionale, in composizione integrata. Una procedura analoga a quella per i giudizi sulle accuse al Presidente della Repubblica.
L’attuale disciplina dispone, invece, che sia la Magistratura ordinaria a giudicare dei c.d. reati ministeriali, in ossequio al principio di uguaglianza fra tutti i cittadini ed all’unicità della giurisdizione.
Viene a tale scopo previsto un apposito organismo, istituito in ciascuno dei distretti di Corte di appello, il Tribunale dei ministri, con il compito di istruire il processo, prevedendosi tuttavia, nel caso che il reato sia stato commesso nell’esercizio delle funzioni, un apposito filtro.
Tale filtro è costituito dall’autorizzazione a procedere da parte della Camera di appartenenza del Ministro. L’autorizzazione potrà essere negata ove l’Assemblea ritenga, a maggioranza assoluta, che l’inquisito “abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante, ovvero per il perseguimento di un interesse pubblico”. Tale valutazione è insindacabile e interrompe definitivamenteil procedimento.
Appare a me evidente che le due ipotesi, per come sono state formulate, piuttosto che porre dei limiti alla discrezionalità della deliberazione della Camera di appartenenza, risultino nel complesso assai vaghe e generiche ed è molto probabile il rischio che una valutazione –puramente politica – possa farvi rientrare, pretestuosamente, qualsiasi atto del ministro (o del Presidente del Consiglio, o anche dell’intero Consiglio dei ministri).
Ove l’autorizzazione venga concessa, il giudice naturale di primo grado sarà il Tribunale del capoluogo del distretto competente per territorio.
La questione che pongo è se l’attività di governo possa giungere fino a violare diritti fondamentali della persona, costituzionalmente garantiti.
Se possa, cioè, essere ritenuta sufficiente una delibera della Camera di appartenenza del ministro, sia pure a maggioranza assoluta, per escludere, e in via definitiva, un Ministro o il Presidente del consiglio, da qualsivoglia responsabilità penale, con la motivazione che il Ministro avrebbe perseguito un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante, o comunque la tutela di un preminente interesse pubblico.
E’ questa, a mio avviso, la questione decisiva.
Va osservato in proposito che ragioni del genere, espresse in clausole così generiche, vengono abitualmente adottate da parte di Stati autoritari per giustificare azioni anche abominevoli. Qualsiasi Stato autoritario, in nome di formule quali la Sicurezza nazionale, della Difesa dei sacri confini della patria, della Lotta contro la tratta dei migranti o contro il Terrorismo, ecc. prevede e giustifica, talvolta anche espressamente, forti deroghe alle garanzie individuali, con un ampliamento significativo dei poteri di polizia, ben oltre quanto previsto nelle rispettive Carte costituzionali. Deroghe che costituiscono il presupposto di provvedimenti odiosamente repressivi contro i diritti fondamentali. Vedi il caso Patrick Zaki, in Egitto, per non parlare di Giulio Regeni.
Sta anche qui la distinzione fra Stato autoritario e Stato a democrazia costituzionale. Quest’ultima si fonda proprio sull’esistenza di regole chiare e univoche che escludano qualsiasi possibilità, anche da parte del Potere legittimo, di avvalersi di formule generiche, allo scopo di derogare, eludere o sospendere principi costituzionali e diritti fondamentali.
Di tutto ciò però non si parla negli organi di stampa, neanche di quella più avvertita, né a livello di opinione pubblica, forse perché i diritti umani dei migranti, quasi sempre africani, valgono molto meno di quelli dei nostri concittadini.
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Si potrebbe obiettare che il processo penale non costituisce, nel nostro ordinamento, l’unico strumento di garanzia dei diritti fondamentali. Verissimo. Esiste anche il processo civile e quello amministrativo. è sempre poi possibile il ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo.
Fermo restando che tutti questi strumenti possono essere utilmente attivati, nel caso di gravi violazioni dei diritti fondamentali, l’eventualità di un processo penale può costituire un forte deterrente per un esponente dei Pubblici Poteri.
Più in generale poi, la tutela penale appare più efficace e più tempestiva di un ricorso al TAR, ovvero di una causa civile. Senza contare che l’intervento delle Procure, ha anche il potere di interrompere la prosecuzione di un reato.
Essendo ineludibile la questione del bilanciamento fra Poteri dello Stato e diritti fondamentali, mi chiedo se tale questione possa essere lasciata alla sola valutazione (quasi sempre esclusivamente politica) della maggioranza di una delle Camere.
Va infatti ricordato che il processo di cui stiamo discutendo è stato reso possibile proprio dalla esistenza di una maggioranza parlamentare differente da quella che ha sorretto il Governo di cui faceva parte Matteo Salvini.
Non nego la difficoltà di lasciare ad un giudice, quindi ad un soggetto estraneo alla politica, la valutazione bilanciata di questi due aspetti.
Il problema appare, infatti, di non facile soluzione. Ma ciò chiama in causa la relativa indeterminatezza della normativa, dovuta probabilmente alla fretta di sostituire la precedente. Oltretutto il legislatore costituzionale del 1989, nel porre in essere l’attuale disciplina dei reati ministeriali, aveva presente soprattutto i reati contro la pubblica Amministrazione (peculato, corruzione, interesse privato in atti d’ufficio, ecc.), non certo l’eventualità di reati che comportassero una violazioni di diritti fondamentali.
La norma andrebbe allora certamente modificata, in particolare quell’art. 9, 3° c., della L. cost. n. 1 del 1989, contenente le due, in linguaggio penalistico, “esimenti”, le quali sembrano riproporre il vecchio principio della “ragion di Stato”, piuttosto che i valori di una Democrazia costituzionale. Ma è pronto l’attuale Parlamento ad intervenire, modificando l’attuale normativa costituzionale, allo scopo di realizzare, autorevolmente e responsabilmente, tale bilanciamento fra Poteri dello Stato e diritti fondamentali? Ne dubito fortemente.
E allora la soluzione potrebbe risiedere in una reinterpretazione della norma, che ne rimoduli la disciplina, proprio con riguardo alla violazione di diritti fondamentali. Vi è un organo abilitato a fare questo: è la Corte Costituzionale la quale vanta una notevole esperienza in merito, attraverso l’emanazione delle cosiddette sentenze interpretative.
Si potrebbe obiettare che il problema paventato, allo stato, non si porrebbe più, dal momento che Salvini, a seguito dell’autorizzazione del Senato, è stato comunque rinviato a giudizio. E, tuttavia, c’è la quasi certezza che le motivazioni avverse all’autorizzazione a procedere, vengano riproposte dalla difesa, la quale interpreterà questo grado di giudizio alla stregua di un giudizio di appello contro la autorizzazione accordata dalla maggioranza in Senato, riproponendo la tesi dell’atto politico, motivato dalla tutela dell’interesse dello Stato. Ed anche su questo ci sarebbe da obiettare.
E allora, tutto sommato, è un fatto positivo che venga celebrato questo processo. Non per motivazioni forcaiole. Non perché si vuole a tutti i costi condannare Salvini a una pena di 15 anni di carcere, secondo quanto previsto dal codice penale per il sequestro di persona – la pena sarebbe oltretutto eccessiva ed il reato potrebbe e forse dovrebbe, a mio avviso, venire derubricato in un reato meno grave.
Ma perché il Giudice, da un lato possa valutare la congruenza fra le motivazioni addotte, peraltro già respinte dalla maggioranza dei Senatori (la difesa dei sacri confini della patria, messi a repentaglio da qualche diecina di persone straniere disperate, salvate dalla nave della Guardia costiera italiana da un probabile annegamento) e quelle effettive.
Un intervento della Corte Costituzionale per una più precisa ridefinizione della norma e quindi dell’ampiezza dei poteri governativi dovrebbe tenere in adeguata considerazione la questione dei relativi limiti, quando, in particolare, sono in gioco diritti fondamentali che richiedono di essere tutelati, e inserire i correttivi che possano rendere compatibile la normativa con la Costituzione repubblicana.
La questione di legittimità costituzionale ben potrebbe essere sollevata, oltre che dal Giudice, anche dalla Parte civile, dal PM, oltre che dalla difesa, e cioè da Salvini stesso, anche se difficilmente lo farebbe.
E questo in funzione della certezza del diritto, e in definitiva, dell’esistenza stessa di uno Stato di diritto, in base al quale ogni Potere deve trovare nella norma giuridica non soltanto il fondamento, ma anche il limite.
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Il prof. Ettore Palazzolo è stato molto bravo ed ha messo a nudo una interpretazione della norma appropriata ai tempi ,tristi, che corriamo. Corretto iol suggerimento di rimettere alla Corte Costituzionale la decisione sul punto. Tengo solo a dire che non mi fido della magistratura che attualmente siede negli scranni catanesi. Sono per la maggior parte ignoranti e decidono secondo gli umori dei politici che governano. Il caso Pogliese dovrebbe farci riflettere. Non conoscono l'economia e non conoscono la Carta Costituzionale. Hanno solo il problema dei fascicoli da sfoltire. Sono una tragica realtà e bisogna lottare per obbligarli ad una necessaria acculturazione pena il degrado sociale cui andiamo incontro. Il prof. Palazzolo è stato bravo e sensibile. Ma è uno dei pochi che dalle nostre parti mostra tale intelligenza. Il resto sono solo affaristi e mediocri. E lo affermo a ragion veduta.