Soprintendenze, Parchi archeologici, musei, gallerie e biblioteche sono autorizzate a concedere in uso a privati, dietro pagamento, alcuni beni, tra cui quelli donati, confiscati, di più vecchia acquisizione per i quali sia stata smarrita la documentazione e, in generale, quelli “deprivati di ogni riferimento al loro contesto di appartenenza”.
Questa la sintesi di un decreto firmato il 30 novembre dall’assessore regionale dei Beni Culturali e dell’Identità Siciliana, Alberto Samonà. Decreto che segue la cosiddetta Carta di Catania, elaborata in occasione dell’Incontro Nazionale Verso un Coordinamento Nazionale degli Ecomusei, ed è stato a sua volta seguito da un ulteriore decreto assessoriale del 10 dicembre, non del tutto coerente con i documenti precedenti.
La concessione dei beni, per un periodo da due a sette anni, rinnovabile una sola volta, sarà “subordinata al pagamento di un corrispettivo” in denaro o come fornitura di beni, servizi, migliorie a favore del deposito di provenienza o in genere a sostegno dei beni culturali.
Concedere ai privati i beni culturali custoditi nei depositi della Regione Siciliana perché vengano esposti al pubblico è davvero il modo più giusto per valorizzarli?
Michele Campisi, coordinatore del Tavolo dei Beni Culturali presso la presidenza nazionale di Italia Nostra, a titolo personale (visto il consenso manifestato dal presidente di Italia Nostra Sicilia, Leandro Janni), ha espresso diverse perplessità. Sia su una certa confusione che emerge rispetto alle compensazioni, sia perché, pur essendo d’accordo su mostre e esposizioni che valorizzano i beni, teme lo stravolgimento dei significati di questi oggetti, che rischiano di essere utilizzati solo come ‘cose’ in grado di suscitare scalpore, e non come opere d’arte o oggetti di interesse storico, che vanno ancora studiati con strumenti critici.
Anche Alessandro Garrisi, presidente dell’Associazione Nazionale Archeologi ritiene che “prendere una menade ellenistica ed esporla all’ingresso di una discoteca non è di per sé un’operazione di valorizzazione”.
Altro tema controverso è quello relativo a chi debba fare il lavoro di inventariazione e catalogazione dei beni conservati nei depositi, essendo previsto non solo l’utilizzo di esperti catalogatori, ma anche di studenti universitari in discipline connesse alla conservazione dei beni culturali che operino in regime di tirocinio formativo, oppure di volontari delle associazioni culturali forniti di adeguati titoli.
L’archeologo e storico dell’arte Salvatore Settis, già direttore della Scuola Normale Superiore di Pisa, considera “irresponsabile l’idea di affidare a studenti tirocinanti un compito come la scelta dei materiali da ‘affittare’. Reclutare manodopera non pagata risponde alla stessa ratio alla base della cosiddetta alternanza scuola-lavoro, generalmente fallimentare. Comporta il disprezzo per la competenza, anzi implica che per valutare quel che è nei depositi si possa fare a meno di un occhio esercitato, quale non può avere uno studente universitario alle prime armi”.
Rita Paris, Presidente dell’Associazione Ranuccio Bianchi Bandinelli, mette al centro delle sue critiche il primato dello studio compromesso. “Il termine ‘in giacenza’ – scrive – rimanda a un patrimonio dimenticato, obsoleto. Non può essere applicato ai beni culturali. Anche se detti materiali non sono destinati all’esposizione, questo non significa che non possano esserlo nelle circostanze di auspicabili iniziative culturali, come mostre e esposizioni tematiche. Sarebbe, comunque, auspicabile che fossero destinati allo studio, oggetto di tesi di laurea e esercitazioni scientifiche.
Considera poi gravissimo che per redigere gli elenchi di questi materiali ci si avvalga di catalogatori della società in house e di studenti universitari, contravvenendo alle disposizioni vigenti in materia di catalogazione.
Taglia corto Gianfranco Zanna, presidente di Legambiente Sicilia: “E chi non potrebbe essere d’accordo ad una proposta di questo tipo: svuotare i magazzini dei musei e rendere fruibili reperti che nessuno conosce. Ma le domande sorgono spontanee: ma dove sono stati lor signori? Cosa hanno fatto in tutti questi anni mentre occupavano importanti ruoli nella gestione dei Beni culturali in Sicilia? Si sono accorti solo adesso di tutto ciò? …. Resta solo una buona dose di propaganda”
Intervengono sulla questione anche i Cobas Scuola della Sicilia, secondo i quali: “Questo tipo di sfruttamento del patrimonio culturale finge innovazione, prolifera all’interno di politiche che hanno negato per decenni finanziamenti e dignità al lavoro culturale, e ha la presunzione di ergersi a modello”. Chiedono quindi la revoca del decreto assessoriale, “in quanto esso riguarda materia di rilevanza nazionale e costituzionale, e incide sul patrimonio culturale della più grande Regione d’Italia (e una delle più ricche di beni culturali).”
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