“Gli sforzi europei per la ripresa dal Covid si concentrano sulle regioni più povere, come la Sicilia” nel tentativo di farle “salire di livello”, leggiamo su The Economist dello scorso 28 novembre: Sicily is desperate for the EU’s cash.
L’articolo, che potete trovare a questo link, anche in traduzione, prosegue: “Il mese scorso il governo regionale siciliano ha mandato a Roma una lista che spera faccia qualificare la Sicilia per la ricezione dei fondi”, e poi insinua il dubbio che le opere proposte siano congruenti con i piani europei, visto che “la maggior parte dei progetti voluti dal governo regionale sono su vasta scala, a lungo termine, e strutturati in modo da soddisfare i requisiti di base”.
Il Next Generation EU prevede, in effetti, che sia data “priorità a piani ‘smart’, ‘green’ e di veloce realizzazione”.
Ci si chiede quindi: per ottenere, e saper spendere, i fondi europei (a cui guarda con cupidigia anche la mafia) l’amministrazione regionale sta facendo le scelte più opportune?
Purtroppo, di ‘verde’ e ‘digitale’, nei progetti proposti dalla Regione, non si vede gran che, anzi – diciamo noi – c’è fin troppo cemento. Lo stesso articolo de The Economist non risparmia qualche punta di ironia quando parla delle “tante cose” che, secondo Musumeci, mancano all’isola come, ad esempio, “un aeroporto internazionale (“Malta, che è più piccola della più piccola provincia siciliana, ce l’ha”, fa notare indignato)”.
E ancora, “una rete ferroviaria moderna (molti tratti della rete esistente sono a corsia unica o non elettrificati, se non addirittura entrambe le cose); e un’autostrada che racchiuda l’intero perimetro dell’isola (che manca completamente su uno dei tre lati).” E poi tutte le infrastrutture sociali, con in cima alla lista la carenza di asili nido.
Perché mai si dovrebbe riuscire oggi a realizzare opere che non si è stati capaci di fare fino ad ora? E’ noto, infatti, a tutti – e lo scrive The Economist – che “in passato la Sicilia ha avuto difficoltà a definire progetti idonei ai finanziamenti europei e a spendere i soldi ricevuti”.
Il settimanale è indulgente e non parla di incapacità ma di pigrizia: “Ci sono ulteriori dubbi riguardo alla capacità della Sicilia di beneficiare di questa opportunità unica, e hanno una lunga storia. La burocrazia siciliana ha infatti la fama di essere pigra, e potrebbe essere quindi problematico dover rispettare le scadenze per avere accesso ai fondi europei: il 70% dell’importo deve essere impegnato, con contratti firmati, entro la fine del 2022, e il restante 30% entro l’anno successivo. Il fondo totale dev’essere speso entro la fine del 2026”.
Citando Vincenzo Provenzano, docente di economia all’Università di Palermo, la rivista invita a concentrarsi maggiormente sul potenziale del Green Deal promesso dall’Europa, lavorando “sui punti per i quali la Sicilia può avere un vantaggio comparativo”, come la coltivazione biologica, molto diffusa in Sicilia. Ma si potrebbe pensare anche ad altre proposte e ad altri settori.
L’autorevole settimanale si interroga, inoltre, sul ruolo della mafia ed esprime la “preoccupazione che i soldi dell’Unione Europea vadano ad arricchire la mafia siciliana”, anche se “ci sono motivi per essere ottimisti”.
Un ottimismo, tuttavia, a nostro parere, non giustificato.
Sebbene, infatti, si affermi che “Sin dai primi anni ’90, giustizia e forze dell’ordine inseguono la mafia senza sosta, e sotto la presidenza di Musumeci, un tempo presidente della Commissione antimafia, le autorità regionali hanno dato il loro contributo”, nulla si dice in concreto su quale sia stato il contributo fornito né su quanto di esso sia ascrivibile proprio a Musumeci e al suo governo.
Tanto più che, subito dopo, si afferma che “La mafia si è ritirata dalle strade, concentrandosi sempre di più sui crimini dei colletti bianchi. Molte indagini hanno dimostrato come la mafia abbia ancora la forza di imporsi sui contratti e di come abbia una particolare predilezione per i fondi UE”.
Niente più stragi, quindi, e questo è vero. Ma dalle strade la mafia non si può dire che si sia ritirata perché commercianti e imprese pagano ancora il pizzo, e questo certo non fa bene all’economia siciliana e continua ad alimentare il potere mafioso.
Quanto all’azione di contrasto e controllo svolta di recente dalle istituzioni regionali, sorge qualche interrogativo.
L’articolo prosegue, infatti, così: “Il che ha portato alla creazione di apposite leggi e regolamentazioni che hanno l’obiettivo di impedire infiltrazioni mafiose nell’economia legale, ma che tuttavia rallentano l’approvazione dei progetti che prevedono investimenti pubblici. Secondo Musumeci tali precauzioni sono eccessive. Vorrebbe che il governo centrale semplificasse le procedure per avere accesso ai fondi europei, altrimenti, dice ‘Non possiamo guardare al futuro’.”
Il problema è molto più complesso di quanto possa apparire. Se per semplificare le procedure, si intaccano o stravolgono le norme che hanno garantito una certa protezione (comunque non totale e spesso aggirata) rispetto all’ingresso di interessi mafiosi, si rischia di far cadere un argine importante.
Anche perché, siamo sicuri che sia proprio la normativa antimafia a rallentare l’iter dei progetti? Che non pesino invece altri fattori come incompetenza o corruzione? Ci risulta che quelle stesse norme in altre Regioni non abbiano impedito di sfruttare i finanziamenti europei.
E che, ad esempio, con il FESR (Fondo Europeo di Sviluppo Regionale), istituito nel 1975 per promuovere la crescita delle zone più arretrate, siano state realizzate, altrove, opere come quelle di cui Musumeci lamenta la mancanza.