Un trattato che si propone di prevenire la violenza contro le donne, favorire la protezione delle vittime ed impedire l’impunità dei colpevoli. E’ la Convenzione del Consiglio d’Europa del 2011, meglio nota come Convenzione di Istanbul, punto di arrivo dopo anni di iniziative, raccomandazioni, gruppi di lavoro di esperti attivi.
Ratificata da 34 paesi, tra cui l’Italia (2013), la Convenzione è uno strumento internazionale giuridicamente vincolante che crea un quadro giuridico completo per proteggere le donne contro qualsiasi forma di violenza, compresa quella domestica.
Da tempo tuttavia le associazioni in campo nella difesa delle donne e dei loro diritti, come l’Unione Donne Italiane, denunciano la sua mancata applicazione e la presentazione di provvedimenti e progetti di legge addirittura in contrasto alla Convenzione stessa.
In una lettera inviata alle Istituzioni e firmata anche dall’UDI di Catania, scrivono
“Negli affidamenti che spesso escludono le madri sulla base della loro denuncia delle violenze subite dal partner, negli allontanamenti non garantiti da alcun meccanismo di controllo sui comportamenti aggressivi dei partners, nelle molestie e nelle violenze sessuali sui posti di lavoro, negli stupri commessi nell’inerzia di intere comunità complici (dove addirittura sindaci si ergono a difesa degli autori), in tutti le occasioni che rendono una donna vittima della violenza maschile, c’è una mancanza profonda di prevenzione e di formazione specifica. L’incuria applicativa segnala il perdurare di antiche complicità, che vanno affrontate e superate.”
Problematiche che sono comuni a “tutte le donne presenti sul territorio italiano, native, migranti e temporaneamente residenti, [che] sperimentano la mancata protezione, protezione e salvaguardia prescritta dalla Convenzione”.
“Lo Stato – proseguono – deve fare la sua parte seguendo le indicazioni che ha sottoscritto: ha preso un impegno e approvato una norma che comporta l’adeguamento della legislazione per il contrasto avanzato al femminicidio e alla violenza che lo precede e lo segue”.
E ancora, con riferimento anche alla situazione determinata dalla pandemia, “Al contrario, invece, nella crisi economica e nell’emergenza sanitaria, si è scelto di individuare le donne come soggetti destinati a pagare il prezzo più alto, con la mancata salvaguardia dei diritti ormai acquisiti, la riduzione delle tutele e con la riduzione dei supporti istituzionali ordinari e quelli appunto previsti dalla Convenzione”.
In concreto – nella lettera – vengono denunciate la “grande disinformazione sulle dette norme nei tribunali e nei servizi sociali” o addirittura la loro interpretazione ostile nel caso delle madri, additate come portatrici di patologie comportamentali, con la sola ragione di aver esercitato il proprio diritto di denunciare, e dei figli, anche quando vittime di violenza assistita quindi sottoposti a grave violenza psicologica.
Viene evidenziata l’inosservanza di alcuni articoli di legge: l’art.15 del capitolo III (formazione dei soggetti pubblici e privati deputati alla tutela delle donne); e dell’art.18 del capitolo IV (che prescrive la collaborazione di tutti i soggetti a garanzia della sicurezza delle donne). E ancora inosservanza e contrasto all’art. 26 del Capitolo IV (protezione e supporto ai bambini testimoni di violenza sulla madre), e dell’art. 31 del capitolo V (diritto di visita e sicurezza dei minori in presenza del maltrattante). Viene sottolineata anche la non introduzione legislativa della nozione di “violenza assistita” come aggravante.
Quanto alle donne ridotte in schiavitù sessuale e vittime di tratta, vittime del mercato criminale e della tratta di esseri umani, esse sono private delle protezioni previste sebbene siano destinatarie di tutte le prescrizioni a tutela previste dalla Convenzione.
“I responsabili istituzionali, nelle vecchie fattispecie di “clandestina”, “prostituta” o straniera stentano a riconoscere le vessazioni subite dalle donne all’interno dei traffici perché considerano la violenza una conseguenza, ignorando la vittimizzazione primaria all’interno della schiavitù sessuale o degli usi religiosi ed etnici ai sensi dell’art. 36 capitolo V (stupri con minaccia e ricatto).
Una parte della lettera è riservata alle donne vittime della violenza economica, alle quali l’art. 18 del capitolo IV stabilisce che venga garantito adeguato sostegno economico ed abitativo. Le donne perdono il lavoro per cause che riguardano direttamente anche le scelte politiche dei governi, ma nel caso delle donne separate, non di rado vittime di persecuzioni e violenze da parte degli ex partners, giungono alla separazione già prive di risorse proprie e del lavoro proprio e di un’abitazione indipendente.
Per quanto riguarda i licenziamenti e il così detto “retravailler” (tornare a lavorare) l’intervento dello stato è, se non nullo, sporadico e molto debole, come dimostra la ventilata e mai attuata politica sul territorio nazionale del “reddito di libertà”.
E, concludendo, con dei concreti riferimenti alle ricadute della pandemia,
“L’emergenza sanitaria spesso, ha annullato o ridotto l’esigibilità dei diritti acquisiti dalle donne con carichi senza contropartita in molti ambiti. Ricordiamo inoltre che in alcune regioni il COVID19 è stato caratterizzato dall’inattuazione della legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza, anche questa grave violazione delle indicazioni CEDAW e dell’OMS.
Noi crediamo che ci siano nemici della Convenzione anche in Parlamento, ma crediamo che gli impegni assunti all’atto dell’elezione comportino per tutti il rispetto delle leggi vigenti (ivi compresa la Convenzione di Istambul), dei trattati sottoscritti, della Costituzione, della Carta dei diritti.
Noi pensiamo che i primi, e tardivi passi debbano necessariamente affrontare il rafforzamento delle garanzie a tutela delle donne che esercitano il diritto di denunciare le violenze, e si vedono penalizzate in famiglia rispetto all’esercizio dei diritti materni; debbano altresì affrontare la tutela delle lavoratrici, sistematicamente punite con la perdita del lavoro sia nella crisi, sia fuori della crisi quando rifiutano di sottostare ai ricatti sessuali ed economici o quando sono condannate al lavoro di cura gratuito”.
Illuminante e purtroppo deprimente testimonianza : pochi giorni fa una giovane tunisina madre di 3 figlie( già vittima di grave violenza domestica regolarmente denunciata nel 2012 e seguita da ricovero in casa-rifugio e condanna del marito) riceve una visita notturna dell’ormai ex marito (che purtroppo è riuscito dopo 8 anni a scovarla) che, visibilmente ubriaco, dalla strada la minaccia di morte svegliando un intero quartiere e terrorizzando le bambine. Nuova denuncia alla
Polizia (attenta e competente) e immediata telefonata ad una importante associazione per la difesa delle donne vittime di violenza o di tratta che le dà un appuntamento per… il 28 agosto.
Elvira Iovino