Ascoltiamo oggi la voce di Marina che ci parla di un progetto umanitario che sta potenziando, con macchinari e attrezzature sanitarie, alcuni ospedali di Damasco e di Aleppo.
Siria martoriata. Non c’è chi possa trovare esagerato definire così la Siria.
Dopo 10 anni di guerra, mezzo milione di morti e un numero infinito di sfollati e rifugiati, la situazione in Siria è stata definita dall’ONU come la più grave crisi umanitaria provocata dall’uomo dalla fine della seconda guerra mondiale.
Il conflitto siriano, è risaputo, non è dovuto soltanto a conflitti interni al paese, in particolare allo scontro tra due concezioni diverse dell’islam. Se così fosse non avrebbe assunto queste dimensioni apocalittiche. E’ chiaro che nel territorio siriano, così ricco di fonti energetiche e con un’importante posizione strategica, si giocano interessi geopolitici di rilevanza internazionale con un coinvolgimento diretto delle grandi potenze.
Allo scenario di morte si accompagna la terribile realtà degli sfollati interni (oltre sei milioni) e dei rifugiati nei paesi vicini (5 milioni e mezzo) nonché la distruzione delle infrastrutture, in particolare degli ospedali, per cui il numero di coloro che muoiono per mancanza di cure supera il numero dei morti sotto le bombe.
Milioni di persone, di cui il 40% bambini, non hanno accesso alle cure sanitarie.L’emergenza COVID ha reso ancora più drammatica la situazione della Siria, a cui si sono aggiunti gli effetti disastrosi delle sanzioni economiche degli USA e dell’UE nei confronti del governo siriano.
Nel vero e proprio “inferno” in cui vive il popolo siriano, alcune persone continuano liberamente a rimanere al servizio della gente, come per esempio, Padre Ibrahim Alsabagh, francescano da sei anni parroco di Aleppo.
Nel 2017, grazie all’iniziativa del cardinale Zenari, nunzio apostolico in Siria, è nato un progetto denominato “Ospedali aperti in Siria” patrocinato dal Pontificio dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale che mira a finanziare, attraverso una raccolta fondi, le cure ai più poveri in tre ospedali storici, l’Ospedale francese e l’Ospedale Italiano di Damasco e l’Ospedale Saint Louis di Aleppo e, dal 2020, in due centri sanitari presenti nei quartieri poveri di Damasco.
Il progetto “Ospedali aperti in Siria”, che ha assicurato più di 30.000 prenotazioni mediche gratuite e punta a fornirne 50.000 entro la fine del 2020, è partito grazie alla mobilitazione della Fondazione Gemelli e della Fondazione AVSI, una organizzazione non profit presente in 32 paesi del mondo (tra cui Iraq, Giordania, Libano e Siria) che realizza progetti di cooperazione allo sviluppo e aiuto umanitario.
Prima della guerra, la Siria era una delle eccellenze sanitarie in Medio Oriente, con una grossa componente di sanità pubblica gratuita. A causa della guerra la gran parte del sistema sanitario è andata distrutta e oltre il 40% del personale sanitario è fuggito all’estero.
Anche se, dal punto di vista bellico, la situazione nel Paese è migliorata e può dirsi conclusa la fase emergenziale dell’assistenza medica, quella legata ai feriti e ai traumi di guerra, oggi chi non ha i soldi per curarsi corre il rischio di morire per patologie banali come una semplice appendicite. Una emergenza a cui “Ospedali aperti” cerca di rispondere.
Ma, al di là dell’aiuto materiale (spesso di vitale importanza) prestato dalle persone coinvolte in questi progetti umanitari, la cosa forse più importante resta il tentativo di non far sentire la popolazione totalmente abbandonata.
Perché la disgrazia definitiva che potrebbe accadere alla Siria sarebbe quella di venire “dimenticata”.
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