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Borsellino, le stragi di mafia e il cuore nero dello Stato

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Strage=Depistaggio - Memoria e futuroCapire meglio quello che è accaduto in passato, per imparare a leggere cosa accade ogni giorno sotto i nostri occhi. E per assumere degli impegni che ci consentano di cambiare le cose, con il coinvolgimento delle giovani generazioni.

Così Adriana Laudani, presidente dell’associazione Memoria e Futuro, ha introdotto il coraggioso incontro che qualche giorno fa, all’arena Argentina, ha riacceso i riflettori sui nodi irrisolti della morte di Paolo Borsellino, dando spazio ai giornalisti Giuseppe Lo Bianco e Attilio Bolzoni e al presidente della commissione antimafia siciliana, Claudio Fava, che hanno interloquito con Antonio Ortoleva nelle vesti di moderatore.

Non sono di poco conto questi nodi, hanno a che fare con il “cuore nero dello Stato”, come lo ha definito Bolzoni, con i Servizi segreti interessati a nascondere piuttosto che a svelare, a confondere le acque, a depistare in modo che fosse visibile solo il protagonismo della mafia.

Ecco perchè Lo Bianco ha subito messo a fuoco la questione gravissima del falso pentito Vincenzo Scarantino, attorno alla cui testimonianza hanno ruotato ben tre processi.

Anche adesso, dopo quattro processi e la prospettiva di un quinto, quello di Scarantino resta il più grande depistaggio nella storia del nostro paese, realizzato nell’interesse non della mafia ma di altri apparati

Su questo convergono tutti i relatori, arricchendo il quadro con riferimenti e ricostruzioni, da Scarantino “pupo vestito”, pronto per essere utilizzato alla bisogna sin dall’omicidio di Nino D’Agostino, di cui parla Bolzoni, al testimone da sempre considerato inaffidabile ma di fatto accettato pur di mettere un punto fermo alle indagini e arrivare in tempi brevi ad una condanna, come sostiene Fava.

Eppure non era credibile che la mafia – ribadisce il presidente della Commissione Antimafia – avesse organizzato quelle stragi solo per vendetta, mettendo a rischio se stessa, ad esempio ‘costringendo’ i parlamentari ad approvare – subito dopo via d’Amelio – la legge sul carcere duro, il famoso 41 bis, che aveva superato indenne la strage di Capaci e che certo non era per i mafiosi un affare vantaggioso.

La mafia, esecutrice materiale degli attentati, doveva essere l’unica su cui concentrare l’attenzione, non si doveva parlare d’altro né tanto meno cercare le “menti raffinatissime” (espressione adoperata da Falcone che Fava prende in prestito) che avevano pensato la strage, contribuito alla sua preparazione e, contestualmente, pianificato anche il depistaggio.

Responsabilità pesanti quelle indicate dai relatori, responsabilità diffuse. Non ci fu infatti – precisa Fava – soltanto il dolo del depistaggio da parte dei Servizi, ci furono anche le complicità, le omissioni, le forzature da parte di molti degli attori in scena: i magistrati di Caltanissetta che sedettero attorno ad un tavolo insieme ai Servizi per una riunione operativa non consentita dalla legge ma giustificata dall’urgenza di ‘agire’, la Procura che affidò al Sisde le indagini pur sapendo che era espressamente vietato dalla legge, tanto che Contrada (già indagato a Palermo) pretese, ed ottenne, prima di mettersi al lavoro, la conferma da parte di tutta la catena di comando, il silenzio dei giornalisti che – anche quando capirono – preferirono tacere e non solo per pavidità.

Troppo complessa la situazione e tante le responsabilità, a vari livelli.

Ecco perchè, secondo Bolzoni, non si deve parlare di trattativa tra Stato e mafia, ma di un accordo permanente tra la mafia e un pezzo dello Stato, ed anche di una vera e propria guerra condotta contro chi, nello Stato, si metteva di traverso rispetto a questo accordo: magistrati come Terranova, Costa, Chinnici (oltre naturalmente a Falcone e Borsellino), poliziotti, carabinieri e perfino giornalisti come Pippo Fava e Mario Francese.

Proprio perchè la questione è molto sfaccettata e complessa, non possiamo lasciare la ricerca della verità esclusivamente alla magistratura. Ne è certo Bolzoni, non solo perchè di alcuni magistrati non possiamo fidarci, ma perchè anche i migliori tra loro possono arrivare al massimo ad una verità giudiziaria e quindi parziale, che non può farci capire appieno tutto quello che è successo.

E’ la politica, anche secondo Fava, a dover ricostruire il racconto dei fatti, che non può essere ridotto ad una somma di sentenze. Anche perchè ci sono comportamenti non penalmente rilevanti che hanno avuto tuttavia importanti conseguenze a livello morale e istituzionale, e non possiamo ignorarli o fare finta di non vederli.

Come disse nel 2017 il giudice Imposimato, di cui nel corso dell’incontro è stata proiettata una video-intervista, Falcone e Borsellino potevano essere uccisi senza ricorrere ad attentati stragisti. Proprio l’esplosivo, la strage e il terrore ad essi connesso ci portano a riconoscere la presenza di un soggetto che non è Cosa Nostra, che nulla aveva da guadagnare da questi attentati. Sono metodi che ci riconducono ad un “governo mondiale” interessato a gestire la dinamica democratica, il potere politico ed economico, servendosi sì della mafia ma anche dei politici corrotti e di altre articolazioni dello Stato.

Che i Servizi segreti italiani, controllati dalla CIA, fossero coinvolti su questo scacchiere lo aveva capito Falcone, che indagava su Gladio e aveva parlato, nel suo diario, di un collegamento con gli omicidi politici di Piersanti Mattarella, La Torre, Della Chiesa,

E lo capì Borsellino, di cui misteriosamente scomparve l’agenda rossa.

Secondo Fava, tuttavia non è necessario chiamare in causa apparati di potenze straniere, basta una convergenza di interessi tutta italiana tra apparati dello stato che vogliono andare in una certa direzione.

Una direzione che ha impedito – tanto per fare un esempio – che un testimone essenziale come il maresciallo Canale, il collaboratore più stretto di Borsellino, trasferito in altra sede tre giorni dopo l’attentato, fosse ascoltato subito dopo la strage. Lo stesso Borsellino, del resto, attendeva da due mesi di essere convocato dal Procuratore di Caltanissetta, al quale aveva chiesto di essere ascoltato, quando l’esplosione mise fine alla sua vita.

Punti oscuri, verità negate, che chiamano dunque in causa responsabilità e complicità di apparati dello Stato, ma anche omissioni e distrazioni da parte di molti altri.

Dopo ventotto anni, capire è una premessa indispensabile per agire, andando oltre ogni retorica. E che i più giovani possano essere coinvolti lo dimostra l’intervento della ragazza ventenne che ha preso la parola a conclusione del dibattito e ha raccontato di essere stata conquistata a questi temi scomodi e impegnativi dalla partecipazione ai seminari d’Ateneo “Tracce di mafia e antimafia”.

Il link alla registrazione dell’incontro

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