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Adnan Siddique, ucciso a 32 anni a Caltanissetta

“Se mi dovessero uccidere i nomi sono questi’, parole di Adnan Siddique, il trentaduenne pakistano, da cinque anni in Italia, che lavorava, a Caltanissetta, nel settore delle macchine tessili e che si è battuto contro il caporalato.

Dopo le tante denunce, presentate e fatte presentare anche da suoi connazionali, era stato minacciato di morte se non le avesse ritirate. Così, purtroppo, è stato nella notte del 3 giugno. Probabili colpevoli, alcuni uomini pakistani.

Una manifestazione popolare, con centinaia di uomini e donne di tutte le etnie, venerdì ha attraversato la città nissena. Per chiedere giustizia, certo, ma anche per denunciare e far venire alla luce quel quadro di sfruttamento selvaggio che caratterizza il lavoro nei campi, dove si coltivano uva e agrumi.

L’omicidio ha costretto Caltanissetta a interrogarsi, innanzitutto sul fatto che è diventata la meta finale di un’organizzazione internazionale dedita al traffico di uomini, che porta molti ragazzi pakistani fino alla città siciliana. Prima dell’omicidio, nessuno sembrava essersene accorto.

L’esistenza di caporalato e lavoro nero era, però, in qualche modo venuta fuori durante il lockdown, quando migliaia di persone si erano rivolte ai servizi sociali per sussidi e buoni pasto; persone che precedentemente non si erano mai rivolte alle istituzioni, a conferma della grande diffusione del lavoro nero.

Il caporalato, da solo, non spiega la complessità della situazione. Occorrerebbe, infatti, far luce anche su prostituzione e pizzo, tanto è vero che nella città si denuncia la presenza di una vera e propria mafia pakistana.

A nostro avviso, però, non è ancora un’analisi sufficiente.

Occorre, infatti, mettere in luce il fatto che i caporali possono operare da intermediari solo perché ci sono imprenditori italiani che, perfettamente consapevoli, sfruttano braccianti e lavoratori, sottoponendoli a ritmi di lavoro vergognosi, ovviamente evitando di “contrattualizzarli”, e, conseguentemente, sottopagandoli.

In un Paese che non si vergogna a proporre “sanatorie a tempo”, solo per rispondere alle necessità delle raccolte stagionali, che permette l’esistenza di ghetti per gli “stranieri” dove non sono garantite le più elementari condizioni di vita, se non abbiamo il coraggio di guardare e denunciare i processi reali e i responsabili di tutto questo, la nostra indignazione rimarrà solo “di facciata”.

Utile per autoassolverci, non certo per cambiare le cose.

Argo

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  • INFAMIA
    che richiede l'IMMEDIATA RISPOSTA DELLA GIUSTIZIA....
    Bisogna sdradicare queste VERGOGNE NAZIONALI,
    incompatibili con uno STATO MODERNO, quale vogliamo il nostro sia,
    costituite da "caporalato", mafie, e simili spazzature dellla Storia!
    Mario Strano.

  • La tristezza che mi provoca immaginare le vite di queste persone, la loro impotenza, la tracotanza esercitata con insensibilità e furbizia e cura e appagamento nel soppesare il profitto da parte della gerarchia sovrapposta a quelli fino all'imprenditore, mi scoraggerebbero. Voglio reagire e accogliere l'invito alla forza di lottare, di denunciare, di rivendicare, di pretendere, di coinvolgere. Grazie, ARGO.

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