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La violenza istituzionale nei confronti delle donne

“Sono passati 3 anni – scrive il Corriere della Sera, il 3 novembre 2019 – da quando la loro Valentina morì in ospedale con due gemellini, al quinto mese di gravidanza.

“E l’accusa dei genitori, alla terza udienza contro 7 medici del Cannizzaro di Catania, è che in quel reparto non la fecero abortire, nonostante una gravissima setticemia esplosa con l’effetto di avere già spento tante ore prima il cuore di uno dei due feti. Non la liberarono dalle creature per le quali non c’era più nulla da fare perché dissero di essere tutti obiettori di coscienza”.

Anche di Valentina Milluzzo si è discusso durante le diverse iniziative che la Città Felice e la Ragna-Tela hanno organizzato a Catania in occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne.

In particolare, presso la facoltà di Scienze Politiche, il dibattito si è concentrato su “quelle donne – come scrive Giusi Milazzo – che hanno vissuto o stanno vivendo l’esperienza dolorosa della violenza istituzionale. Una violenza diversa, ma non meno meschina e feroce. E’, infatti, in discussione il fondamento stesso dello stato di diritto, un diritto che non garantisce né il sentire né la soggettività femminile.

Un diritto che nasce da un’impostazione di fondo che è frutto di una radicata cultura patriarcale e che quando offre alle donne tutela ne sottolinea l’inferiorità o al meglio, in un’ ottica egualitaria di emancipazione, annulla l’identità femminile in un falso neutro tarato su un modello maschile”.

Nella consapevolezza che la non discriminazione non possa essere assicurata da una normativa neutra, dato che donne e uomini, anche nel nostro contesto sociale, non godono dello stesso potere.

Situazione, quest’ultima, che si ripete, anche in forme più drammatiche, in tanti luoghi della terra, dove si cerca di arrestare l’impegno delle donne in lotta con la violenza degli stupri, delle torture e delle uccisioni. Come accade, solo per citare due realtà, in Rojava e in Cile.

La testimonianza di Serafina Strano, la dottoressa stuprata due anni fa mentre lavorava nella guardia medica di Trecastagni, ha ulteriormente evidenziato la misoginia che permea tanti luoghi di lavoro, ma è emerso, anche, l’impegno con cui questa donna vuole sconfiggere il tentativo di isolamento che ha subito, mentre continua a pretendere giustizia, un equo risarcimento e un’organizzazione del lavoro che rispetti le differenze sessuali.

L’ultima testimonianza proposta è stata quella di Ginevra Amerighi, un racconto denso ed emozionante, preceduto dall’appassionato e competente intervento dell’avvocata, Alessandra Geraci, che ha tracciato la storia della sottrazione della figlia.

Ginevra, come scrive Luisa Betti Dakli sul Corriere della Sera, “accusa un partner violento, il tribunale dei minori ignora il procedimento in corso nei confronti dell’uomo, non fa indagini ma ordina una Ctu (Consulenza tecnica d’ufficio) da parte di una professionista che inventa una malattia: un “possibile disturbo istrionico” che potrebbe essere un pericolo per la bambina. Tutto al condizionale, niente di certo ma abbastanza per portarle via la figlia sulla base di una Ctu”.

Nell’intervento conclusivo – scrive sempre Giusi Milazzo – Anna Di Salvo, nel ringraziare tutte e tutti perché ancora una volta si è compiuto un evento che ha consentito di intrecciare la storia della Ragna-Tela con gli intensi vissuti di tante donne, approfondendo saperi e relazioni, ha ricordato uno dei testi sacri, ancora attualissimo, del femminismo della differenza ‘Non credere di avere dei diritti’ a cura della Libreria delle donne di Milano.

Non una citazione per indurre allo scoramento ma, al contrario, il suggerimento di percorsi alternativi, necessari per affermare la forza e la bellezza del pensiero e la pratica politica della differenza sessuale.

Argo

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