Qualcuno tuttavia ci prova, si ostina nel tentativo di trasformare il conflitto in occasione di crescita e di sviluppo, non a parole ma nella convivenza quotidiana in cui “giovani nemici sono disposti a mettersi in gioco per costruire una concreta relazione di pace”.
E’ quello che accade nel borgo medievale di Rondine, teatro nel medio evo di guerre sanguinose tra fiorentini ed aretini.
Seguono training in mediazione dei conflitti, si iscrivono a master in diplomazia internazionale, studiano metodologie di difesa e risoluzione dei conflitti senza l’uso della forza, imparano a gestire emozioni e ricordi traumatici di guerra.
Nello scorso mese di ottobre, in occasione della giornata della non violenza, nella parrocchia SS.Pietro e Paolo su invito di Pax Christi, sono venute a parlare dell’esperienza di Rondine una ragazza palestinese e una nigeriana, Dyala e Jane.
Una esperienza, quella di Rondine, non scevra da conflitti al suo interno perchè imparare a convivere con chi hai sempre considerato un nemico e con cui adesso devi condividere il pane, l’acqua, gli spazi, le riflessioni, non è una faccenda da poco. Ci sono da superare barriere potenti, istintive, assimilate dall’infanzia e rafforzate da esperienze a volte terribili.
Lo sforzo richiesto è così grande che può capitare che qualcuno abbandoni. Chi resiste deve fare un lavoro interiore e deve apprendere un metodo che, tornato nella propria terra, farà di lui, di lei, un operatore che può orientare il cambiamento e promuovere azioni e progetti di sviluppo, come prevede il progetto “Leaders for peace”.
Il concetto di nemico, dice Jane, è un “inganno planetario”. Gli interessi che ci stanno dietro restano nascosti ma sono alla base di una manipolazione di cui il singolo non si rende conto. Da qui l’importanza dell’istruzione, la necessità – tornando – di impegnarsi perchè i ragazzi diventino più consapevoli, conoscano i loro diritti.
In un paese come la Nigeria, dove tanti sono i bambini che abbandonano la scuola per unirsi ai gruppi armati, è un obiettivo essenziale e difficilissimo. Bisogna capire, prosegue Jane, la psicologia del conflitto, l’ansia, la disperazione, la frustrazione che genera. Senza comprendere queste dinamiche non si può lavorare per costruire la pace.
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Vivere a Rondine con altri giovani che provengono da altri paesi del mondo dove si sperimenta il conflitto, non solo in Africa ma anche in Asia, in Sud America, aiuta comunque ad allargare gli orizzonti, a conoscere la diffusione del fenomeno, a sentirsi parte di una realtà terribile ma nei confronti della quale non si è soli.
Di un impegno per cambiare la mentalità, propria e altrui, ha parlato anche Dyala, palestinese. Essendo Israele un paese costruito su un modello di esclusione, con un regime legale differenziato per Palestinesi e Israeliani, con il controllo delle risorse nelle mani di questi ultimi e la “messa in scena” (così si è espressa) di negoziati che non impediscono, nel frattempo, di creare nuovi insediamenti ebraici in territorio palestinese, come si potrà mai lavorare per la pace?
Ma è proprio l’elevata complessità e l’alta conflittualità dei contesti di provenienza a rendere significativa la sfida.
Per Dyala, vissuta in una realtà in cui diventa “normale ciò che normale non è“, come il dover fare talora ore di fila a un check point anche solo per andare a lavorare, l’arrivo in Italia e la permanenza a Rondine hanno rappresentato una svolta.
“Per al prima volta avevo gli stessi diritti del mio ‘nemico’, e potevo anche scoprire le cose che abbiamo in comune, come per esempio il rispetto per le persone anziane” ha raccontato.
Ai racconti toccanti delle due giovani ospiti, introdotte da Giuliana Mastropasqua, si è aggiunto un breve intervento di Rosario D’Agata che ha illustrato la legge regionale (n.514, giugno 2019) recentemente approvata sulla promozione della cultura della pace.
Una legge nata “per rendere concreta l’aspirazione dei siciliani fare della Sicilia una terra di pace” (art.2), in coerenza con i principi costituzionali che sanciscono il ripudio della guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali, il ripudio di ogni forma di razzismo, la promozione dei diritti umani e delle libertà democratiche (art.1).
Una legge che rischia, tuttavia, di rimanere – come riconosciuto dallo stesso relatore – lettera morta anche perchè non si capisce come possa la Regione, per conseguire i suddetti obiettivi, “realizzare interventi diretti e favorire interventi di enti locali e organismi associativi” (art.3),
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