E’ successo davanti alla fermata dell’autobus 319, a Roma. Lo scatto del fotografo mostra la sagoma di un corpo sotto il lenzuolo bianco ed una scarpa che ne sporge fuori. Una scarpa con un buco nella suola.
Finiva così la vita di Mario Amato, magistrato, ucciso con un colpo di pistola alla nuca il 23 giugno del 1980 mentre aspettava l’autobus che avrebbe dovuto portarlo al lavoro.
Cominciati con la terribile ingiustizia della strage di piazza Fontana, gli anni di piombo erano proseguiti, insanguinando mezza Italia, lungo tutto il decennio successivo.
Morivano ammazzati poliziotti, carabinieri, giornalisti, politici, imprenditori e tra loro moltissimi magistrati. Solo nel mese di marzo del 1980 ne erano stati assassinati tre: Nicola Giacumbi, Girolamo Minervini e Guido Galli, un mese prima era stato ammazzato il giurista Vittorio Bachelet.
Nel giugno dello stesso anno tocca a Mario Amato, nato a Palermo nel 1937.
Perché ricordare oggi quelle storie così lontane nel tempo? Non è soltanto per la paura di dimenticare…
Amato, che aveva lavorato alla procura della repubblica di Rovereto, era giunto nella capitale con l’incarico di riprendere e continuare le indagini che avevano portato alla morte del giudice Occorsio, avvenuta nell’anno 1976.
A differenza dei suoi colleghi non indagava sulla miriade di gruppi terroristi dell’estrema sinistra ma seguiva la pista dell’eversione nera.
Quella mattina di giugno aspettava l’autobus poiché voleva essere al lavoro di primo mattino e la macchina di servizio a quell’ora non era disponibile. Non aveva l’auto blindata perché ce n’era solo una e aveva ritenuto che i colleghi che si occupavano di terrorismo rosso ne avessero più bisogno di lui.
Era l’unico procuratore a svolgere quelle indagini. Aveva molto insistito per avere dei collaboratori, ma inutilmente: era stato lasciato solo a svolgere un lavoro pericoloso e massacrante.
Forse qualche pezzo dello Stato gli remava contro? Sicuramente attorno a lui il clima era tutt’altro che sereno. Qualcuno dei suoi colleghi gli aveva fatto arrivare persino velate minacce.
L’uccisione di Amato è stato un segnale mandato allo Stato, ma anche il frutto della volontà di annientare colui che stava riuscendo a collegare il terrorismo di matrice fascista a pezzi delle istituzioni.
A rivendicarne l’omicidio furono i Nar: “Abbiamo eseguito la sentenza di morte contro il sostituto procuratore dottor Amato per la cui mano passavano tutti i processi a carico dei camerati. Oggi egli ha chiuso la sua squallida esistenza imbottito di piombo.”
Qualche settimana dopo l’omicidio Amato, una bomba scoppierà nella stazione di Bologna provocando una strage. Quegli anni che hanno segnato il destino di un paese e di tantissime persone li ricordiamo come attraverso una nebbia, eppure continuano a pesare anche sul nostro presente.
I fili seguiti da Amato, che legavano il potere pubblico al vasto sottobosco finanziario ed economico, continuano ad infittirsi sempre più.
La visione del vivere di questo magistrato con le scarpe scalcagnate che nella più desolante solitudine svolgeva il suo lavoro è lontana anni luce dalle pose tronfie e retoriche, dai gesti enfatici del nostro tempo.
Ricordiamo questo palermitano coraggioso, in tempi in cui la violenza distruttrice di ogni diritto umano fa sentire il suo grido lacerante, perché, come recita il titolo di un libro di Carlo Levi, “Il futuro ha un cuore antico”. E per continuare a sperare.
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Ricordiamo, tutto, o, almeno, vogliamo ricordare quanto più possibile, per CHIEDERE, e pretendere, GIUSTIZIA, per ieri, oggi, domani, sempre!