Soprattutto le Rumene, che lavorano quasi sempre come badanti e a Catania sono più di 10.000.
S’incontrano tra di loro nei giorni liberi e chiacchierano, ridono forte sedute sulle panchine dei giardini.
Là sedute, queste donne di mezz’età, con acconciature fuori moda e vestiti dai particolari sgargianti, tirano fuori dalle borse il pranzo, a volte un vestitino comprato per il nipote lontano da mostrare alle amiche.
In genere le consideriamo utili, si occupano per noi dei vecchi, dei malati, della casa, ma sono soprattutto presenze passeggere, con quei nomi strani che forse non ci ricorderemo neanche, una volta andate via.
Ma eccovi dieci motivi, un decalogo, per disegnare alle spalle di queste vite sconosciute almeno uno scenario, come in ogni storia che si rispetti.
Prima però una precisazione: parliamo qui della maggioranza che abita i mille villaggi e non le poche città, dove la vita scorre forse diversamente.
Poi, si considerano nostri cugini. Non vi è cittadina di medie dimensioni che non abbia una piazza con una colonna e sulla colonna la lupa che allatta Romolo e Remo e la scritta: Roma madre. Considerano Traiano imperatore di Roma uno di loro, non dovremmo scordarlo neanche noi.
Terzo: vogliono stare in Europa, soprattutto i giovani. Del resto, sparsi come sono a lavorare in tutta Europa e vivendo insieme a minoranze tedesche, magiare, polacche, rom, anche se orgogliosi della patria non vogliono certo stare da soli.
Quarto: amano la musica, quella classica, ma anche tutte le altre, ed i balli. E cantano.
Quinto: vivono per lo più in povertà ma non in miseria. Quindi conducono una vita dignitosa: lavorano con cavalli e buoi, vivono con le stalle delle mucche accanto alle case, e galline oche cani e capre becchettano, brucano e abbaiano sui prati davanti la strada principale dei villaggi.
Le case, per esempio, sono piccole ma ognuna ha degli ornamenti speciali: cancelli di legno finemente intagliati, ricami di pietra, stucco, legno, o semplicemente pareti colorate: verde acqua e giallo, lilla, malva, celeste.
Settimo, che è poi un’appendice del sesto: i fiori. Li piantano ovunque, e non solo ad opera dei comuni nelle rotonde, davanti i municipi, nei giardini pubblici, ma dovunque non si pianti per produrre: persino sui cigli delle strade fioriscono iris viola e bianchi, peonie e cespugli di lillà ornano ogni ingresso.
Ottavo: non sono mai soli. Davanti le case dei villaggi ci sono ovunque panchine di legno dove le anziane passano il tempo con le vicine e spesso diverse generazioni si riuniscono, tutti seduti lì fuori a farsi compagnia.
Nono: il senso del sacro ancora aleggia nell’aria degli sperduti villaggi dell’est.
Le icone col volto severo di Cristo, i santi ieratici non hanno nulla a che vedere con le immagini un po’ edulcorate delle nostre chiese. Nelle chiese di legno dei villaggi la storia biblica è dipinta sulle pareti e non lascia spazio a consolatorie spiegazioni tutte occidentali.
E finiamo il nostro decalogo: l’ospitalità.
Servono le colazioni sui piatti buoni: formaggi, pomodori e frittate con i funghi alle nove del mattino a noi turisti ricchi che ci svegliamo tardi e giriamo il mondo per piacere e, insieme al pane fresco, mettono pure il vaso con i fiori appena raccolti nell’orto, accanto ai cetrioli.
E infine, un epilogo: dopo i siriani, i rumeni sono il popolo che emigra di più. Non è solo la povertà a farli partire ma l’insicurezza sociale e politica, il clima di grave corruzione, i tentativi sempre più sfacciati del governo di minare le basi democratiche del paese.
Duecentomila rumeni lasciano ogni anno il loro paese. Si stima che dall’anno corrente al 2050 il paese potrà perdere il 17% della sua popolazione.
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