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Le suggestive rovine di Monte San Basilio

A mezz’ora da Catania, tra Lentini e Scordia, la campagna odora di quello che il piede pesta facendosi largo tra la vegetazione: timo, finocchietto, nepitella, rosmarino…

Inerpicarsi dal Biviere di Lentini fino ad arrivare a Monte San Basilio, chiamato “il casale” dalla gente del posto, richiede un po’ di fatica: si abbandonano pian piano i rigogliosi agrumeti e gli uliveti ben tenuti della Piana e ci si incammina lungo una stretta, a tratti ripida trazzera che serpeggia tra campi di avena e altri lasciati a pascolo, che costeggia antiche cave abbandonate che raccolgono l’acqua piovana dove vanno ad abbeverarsi i cavalli.

Dalle cavità delle rocce sporgono le piante ancora in fiore dei capperi, mentre, se non si fa attenzione, cardi enormi graffiano senza pietà braccia e gambe! Una volta in cima si viene ricompensati da una vista magnifica e da rovine antichissime tutte da esplorare.

Il monte, abitato già da prima della fondazione di Leontini, divenne in età arcaica una roccaforte a protezione della città e della strada che collegava la Piana di Catania con Siracusa e i Campi Geloi.

Fu abitato fino all’età ellenistica, poi abbandonato e nuovamente ripopolato durante il medioevo.

Gli ultimi scavi in zona risalgono al primo ventennio del secolo scorso, ad opera di Paolo Orsi. Pare che proprio qui l’archeologo abbia trovato quella che chiamò la “tomba del duce ignoto”, dove è stata rinvenuta la bella corazza in bronzo datata al 370 a.C. che si può ammirare al museo Paolo Orsi di Siracusa.

Ma le rocce basaltiche, di origine submarina, successivamente ricoperte da bianchi sedimenti in calcarenite, vantano presidi ancora più lontani nel tempo, risalenti alla cosiddetta civiltà di Castelluccio dell’età del bronzo.

Girovagando tra resti di fortificazioni, fondamenta di templi, grandi strutture ipogee risalenti al periodo protoclassico ed abitate fino al tardo medioevo, si arriva alla grande attrazione del luogo: un’imponente sala rettangolare di circa diciotto metri per sedici scavata nella roccia nella quale si scende tramite un’ampia scalinata.

La costruzione è unica in Sicilia. Al suo interno s’innalzano trentadue pilastri anch’essi ricavati dalla roccia e sormontati da travertini che sostengono una massiccia copertura a lastroni della stessa pietra.

Lasciata da anni nel più completo abbandono, l’ampia camera, che l’Orsi ritenne essere stata in origine una cisterna e che fu poi trasformata in periodo bizantino in chiesa rupestre, è ormai assediata dalla vegetazione. Lungo il suo perimetro, cespugli di sambuchi e alberi di fichi si contorcono cercando di farsi largo alla ricerca di aria e sole.

Ci si trova in uno spazio molto suggestivo: le pietre echeggiano davvero dei rumori e delle vicende delle antiche epoche.

Ogni vestigia è avvolta nel mistero perché ancora non si è giunti a dare un nome a questo luogo: sarà forse questa la Brikinnia di cui parla Tucidide? O si tratta del centro fortificato di Euboia, colonia dei calcidesi di Leontini?

Non si sa e, vista l’incuria in cui giace, forse non sapremo mai il suo vero nome né la sua storia finché il tempo finirà inesorabilmente per cancellarne ogni traccia.

Foto di Dario Polimeni
Argo

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