Cogliere il ritmo e l’armonia già presenti nel creato, sol che ci si sappia sintonizzare col respiro dell’universo: è questa l’ambizione di Romana Romano nel nuovo volume di poesie “Risplende di nuovo il sole”, presentato domenica scorsa nei locali della biblioteca del Castello di Leucatia.
A presentarlo sono stati Mina Mancuso, docente di lettere, e Tancredi Bella, ricercatore di Storia dell’arte medioevale all’Università di Catania, mentre è toccato a Francesco Valora, Maria Grazia Ruggiero e Chiara Battaglini leggere alcune liriche.
In questa raccolta sin da subito risalta l’attitudine propria della poetessa alla contemplazione: essa, sfiorando appena alcuni tasti, come un pianista che disponga d’una sola ottava musicale, ma sa trarne un gran numero di variazioni sullo stesso tema, si appresta a comporre una grande sinfonia.
L’uso di parole dalla forte valenza metaforica, nuvole, nebulosa, ombre, penombra, buio e, in antitesi, sole, luce, arcobaleno tratteggia chiaroscuri e paesaggi che non smarriscono la loro preziosa naiveté, poiché l’autrice tiene saldi in mano il senso e la direzione del discorso poetico.
Sul versante opposto, Romano non si è ancora liberata di lessemi generici, bene, male, vero che, potendo contenere in sé infiniti mondi, tolgono immediatezza alla poesia: là dove prevale necessariamente l’implicito, la poesia assume infatti la cifra d’una certa enigmaticità.
C’è poi nella raccolta un criterio di selezione che agevola una graduale fruizione di tematiche, dalla più semplice alla più impegnativa.
Per esempio l’attesa, su cui si è soffermata Mancuso.
“Riverbero”, la prima poesia, allude , con accenti pascoliani, alla nascita come evento del mondo umano ed animale “Nel silenzio ovattato dell’alba/ garrisce piano un uccello/ mentre altri pigolano nel nido./ Solitari si levano i voli, preludio/ di un tempo sereno/ che venga con fertili frutti/ a colmare l’attesa”.
Nella seconda poesia, “La corsa”, l’attesa diventa struggente desiderio che si attui un compimento, che si preannuncia ne “l’incontro e la gioia di amici fidati/ la traccia presente di luoghi lontani”.
Nella poesia “Coscienza”, invece l’attesa culmina nell’evento del Natale: “Nello scuro del tempo che è vivo/ un barlume si mostra e si accampa./E’ un bambino che nasce nel niente/ essenziale nitida icona/ del divino che colma l’attesa/ viva carne, nuova promessa.”
Accanto a questo tema dominante, Romano ferma nelle sue pagine ricordi di esperienze vissute durante viaggi indimenticabili, in Cecoslovacchia nel 1968 (“Catacomba”dedicata ai preti della Chiesa del silenzio), in Israele, dove la coesistenza, a volte drammatica, di genti e luoghi diversi, le strappa un fiducioso auspicio:”Unica e affascinante/ promessa, profezia di pace/ che tarda a venire, conquista ed inquieta il pellegrino/ Gerusalemme”.
Nelle liriche di questo volumetto troviamo ancora ricordi pensosi e fuggevoli di vacanze in Alto Adige, dove “sull’arida via/ in terra battuta/ rapito dal veloce/ rombo delle auto ecco uno stambecco.”
Colpito dall’odore che sale dall’autostrada, l’animale “non procede oltre/ attonito e smarrito/ a disagio nella civiltà /del benessere/ come lo straniero”.
La sofferenza del mondo animale le suscita moti di compartecipazione, verso i gabbiani che “cercano di allontanare i bagnanti: / i piccoli sono sulle rocce/ nel nido”, verso il passero affamato, verso gli stornelli.
Gli uccelli, che con l’eleganza e la leggerezza dei loro voli sono figura frequente nei suoi versi, vengono umanizzati al punto che sono grati anch’essi del cibo, e l’uso di questo aggettivo, quando ricorre per gli uomini, fa sì che Romano non abbia bisogno di dare altro nome alla preghiera.
Un’altra osservazione si vuol fare qui di passaggio. Il senso ritmico spontaneo di questa poesia denota un gusto che si è formato da lungo tempo, una metrica non studiata ma forse suggerita dalla familiarità con la recitazione dei salmi – che nascono insieme alla musica – e di alcuni canti ecclesiali moderni.
Ci piace concludere con una notazione di Tancredi Bella che, dichiarando umilmente di “occuparsi di pietre, non di parole” e di non voler “affrontare quindi la cifra poetica, formale della poesia di Romana”, ha individuato con acutezza l’intenzione dell’autrice di “commuovere alla poesia”, cioè di dedicarsi ad una poesia che interpelli gli altri, stimoli la mente dei lettori e li rinfranchi nel dolore.
Una poesia, in altri termini, “laica, ovvero profondamente comprensiva della sacralità”.
Obiettivo alto e difficile questo, che non sempre riesce a chi se lo propone: sono d’ostacolo proprio le urgenze del presente – si veda l’uso tirannico, fortemente asseverativo dell’indicativo presente.
In certe liriche brevi, le più sobrie, uno squarcio – tuttavia – si apre. Si veda “Radura” . La radura benevola e verde/ gli amici cari e discreti, poche grandi parole./ Nello sconvolgimento /di quel giorno per una grazia /che non venne,/dicesti e ripeti: grande è Dio/ e il suo, anche se misterioso,/ è amore.