A porre la domanda ad un interessato pubblico di non giovanissimi, nell’aprire le “Conversazioni etnee 2019“, è Giuseppe Riggio, presidente uscente dell’Associazione EtnaViva, grande conoscitore del territorio e autore di libri sulla nostra montagna.
Con i suoi soci la quasi ventennale associazione organizza trekking per far conoscere il variegato territorio etneo, senza dimenticare i costumi e le usanze della gente che lo ha popolato e che da questa terra ha tratto il suo sostentamento.
Ma non avrebbe senso ripensare al passato con un atteggiamento nostalgico che ne falserebbe la memoria dimenticandone gli aspetti più duri, la povertà, il lavoro minorile, l’analfabetismo, l’alta mortalità per porre l’accento solo sulla vita più semplice e la natura più rispettata di una volta.
Riggio ci invita a non trascurare un tempo che fu e che pure ancora ci appartiene, perché vi affondano le nostre radici, ed è bello e forse anche doveroso che anche le nuove generazioni possano conoscerlo.
Durante questo primo incontro dell’anno si è parlato di antichi mestieri oramai scomparsi, ma che una volta erano comunissimi su questa terra aspra e difficile da lavorare, scossa da continui tremori e spesso solcata da lingue di lava incandescente che hanno bruciato boschi, sepolto case e frutteti, vanificando bruscamente tante fatiche.
E’ il vigneto ad avere modellato le campagne etnee, creando un paesaggio di vigne terrazzate e casolari sparsi che, sebbene ormai grandemente ridotto, continua ancora oggi a costituirne la parte di pregio.
Durante la serata a raccontarci di vigne e del lavoro dei vignaiuoli è l’avvocato Andrea Giuffrida, presidente attuale di Etnaviva.
La storia dei vigneti etnei comincia col vescovo di Catania, conte di Mascali, che a metà del ‘500 diede in enfiteusi, cioè a censo, i suoi vasti terreni ancora per lo più boschivi: gli acquirenti godevano di un diritto reale di godimento dei terreni, in cambio dovevano migliorarne la resa e pagare un canone annuo.
Si cominciarono così ad impiantare e coltivare vigne che divennero sempre più estese.
Quando la diffusione della fillòssera in Europa inferse gravi danni ai vigneti, i vini siciliani, scampati per il momento al contagio dell’insetto, godettero di un incremento importante nelle esportazioni.
Questo fino a che il contagio negli anni ‘80 del 1800 non si diffuse anche in Sicilia e poi nelle isole minori, provocando un tracollo dell’economia e un picco di emigrazione in America ed Australia.
Fra i vari tentativi sperimentati per difendersi da questo parassita, si è ricordato quello di allagare i vigneti sommergendoli per buona parte dell’anno. In seguito, con i portinnesti “americani” nel corso degli anni si riuscì a reimpiantare ben 46 varietà di vitigni nostrani.
Negli anni tra le due guerre, per la somma di 58 lire per un migliaio di viti, “cunsavano” la vigna: zappavano tre volte, mantenevano puliti i muretti, spollonavano, ripianavano il terreno.
Il massaro etneo pur nella sua povertà era comunque un privilegiato, perché aveva assicurato il minimo per la sopravvivenza ed aveva un lavoro in tutte le stagioni.
Durante le vendemmie, mentre gli uomini pigiavano il mosto, le donne, pagate la metà, raccoglievano l’uva e la portavano al palmento.
Assieme al vino venivano venduti anche le vinacce per le distillerie, la feccia, usata per il “viniolo” o secondo vino, ed il tartaro delle botti come lievito industriale.
In quei tempi duri anche il commercio richiedeva tanta fatica fisica. Esso era per lo più ambulante, ed avveniva principalmente a piedi.
Luogo importante di commercio e spaccio di prodotti era nei primi del ‘900 la città di Troina.
Chilometri e chilometri venivano percorsi a piedi, a dorso di mulo, su poveri carretti, per comprare e vendere o anche solo per barattare pochi chili di limoni con spigolature di grano dell’ennese che al ritorno veniva lavorato e rivenduto.
Il commerciante che andava ad acquistare i vitelli nel palermitano faceva tutto il viaggio di ritorno a piedi assieme agli animali.
Ambulanti giravano con carichi pesanti per le masserie, ad esempio a vendere il sale, basilare per la conservazione degli alimenti.
Gli “scartatari” arrivavano su carretti da Adrano e provincia per vendere le arance di scarto.
Anche la neve dell’Etna veniva acquistata e venduta alimentando una vera e propria industria. In inverno veniva ammucchiata nelle neviere per poi essere trasportata in seguito fino a di Giarre. Numerosi carrettieri adraniti si trasferivano per mesi a Fornazzo da dove, fino a che la colata lavica del 1928 non la distrusse, una teleferica saliva nella zona dell’attuale rifugio Citelli, poi con il loro carico di neve scendevano a Giarre e Catania.
Infine un ulteriore attività del periodo, quasi una vera e propria industria, è stata quella dell’emigrazione. I bastimenti dei Florio carichi di emigranti lasciavano il porto di Palermo con cadenza regolare e sempre pieni.
Ma ci fu col dopoguerra anche una risposta politica, esemplificata in una foto: siamo al rifugio Sapienza nel 1953, la guida Barbagallo riceve De Gasperi, serissimo, uomo d’altri tempi, pensate, non guarda neppure l’obiettivo… Finalmente lo Stato è presente, e comincia a farsi carico dei bisogni dei suoi cittadini.
La prima delle Conversazioni etnee finisce qui, c’è appena il tempo di ricordare che le fatiche e la miseria a cui non siamo più abituati continuano ad essere le compagne fedeli di miliardi di uomini che vivono in altre regioni di questo vasto mondo, o forse anche a casa nostra, ma in posti nascosti dove non ci piace guardare.
E per tornare alla domanda iniziale a proposito della fatica fisica sofferta durante un lavoro manuale: le poche esperienze che qualcuno ha cercato
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molto, molto interessante