Premio che, quest’anno, è stato assegnato a Giovanni Maria Bellu, giornalista-scrittore, ex direttore del settimanale Left, del quotidiano regionale on line Sardinia-post e condirettore de L’Unità.
Non, ovviamente, una rinuncia, ma la consapevolezza e l’auspicio che la Città sia in grado di raccogliere il testimone, che non abbia più bisogno di qualcuno “delegato” a trasmettere emozioni.
Dopo 35 anni dall’assassinio di Giuseppe Fava, Catania non ha dimenticato. Circa 300 persone, partite in corteo da piazza Roma, si sono riunite con tanti altri cittadini presenti sotto la lapide, nel luogo dove avvenne l’omicidio. Alle 18, al teatro Verga, il dibattito e la successiva premiazione.
Mario Barresi, con considerazioni e domande puntuali e per nulla ingessate, ha stimolato la riflessione sulle difficoltà che attraversa, oggi, il fronte antimafioso, dopo il cosiddetto caso Montante (ex presidente degli imprenditori siciliani e delegato per la legalità di Confindustria,“l’industriale paladino dell’antimafia, come scrisse La Repubblica [finito] sotto inchiesta in Sicilia per mafia”).
Claudio Fava, presidente della Commissione regionale siciliana antimafia, ha rivendicato l’importanza del lavoro svolto sinora, ribadendo che la Commissione non può e non deve sostituirsi alla magistratura, ma deve contribuire a ricostruire i contesti storico-politici.
Come nel caso di Montante, dove è emerso un vero e proprio sistema capace di subordinare le scelte politiche dell’ARS agli interessi esterni. Tanto che funzionari apicali degli assessorati venivano convocati in casa del dirigente della confindustria e invitati a firmare veri e propri contratti, con i quali veniva indicato loro come avrebbero dovuto operare.
Ma Fava ha ricordato, anche, che non va bene “l’autocertificazione dell’antimafia”, che non bisogna avere paura di contrastare chi ostenta un impegno in favore della legalità avendo in testa, però, altri obiettivi.
Le tante associazioni contro il “pizzo” non sono, per esempio, tutte uguali. Chi si espone in prima persona e aiuta effettivamente chi denuncia, non ha nulla a che vedere chi interviene solo per approfittare dei finanziamenti.
Armando Spataro, ex procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Torino, ha innanzitutto contestato la logica della generalizzazione, per la quale intere categorie in quanto tali sono in sé “criminogene”.
Un modo, ha affermato, per non affrontare i problemi dividendo, come si dovrebbe correttamente fare, fra chi è corretto e chi non lo è. Fra i magistrati, i giornalisti, i politici….
Così come ha ricordato che non tocca alla magistratura farsi carico/debordare nel campo della politica e/o cercare consensi (anche mediante inutili esternazioni) tra la popolazione.
L’applauso più convinto lo ha, però, conquistato quando – ricordando i principi costituzionali – ha denunciato la disumanità delle attuali politiche sulla sicurezza e sull’immigrazione, costruite a partire dalla mistificazione sui dati reali, che, invece, certificano che oggi siamo più sicuri e non meno di ieri.
Introducendo Don Luigi Ciotti (fra l’altro presidente di Libera, Associazioni, nomi e numeri contro le mafie), Barresi gli ha chiesto di spiegare quanto riportato in un’intervista apparsa su Meridionews, marzo 2016, dove aveva affermato “Mi auguro che Antonello possa dimostrare la verità. Vorrei che ognuno di quelli che vengono indagati siano messi nella possibilità di farlo. Per il resto, non sono in grado di entrare in una storia di questo tipo. Dico solo che oggi sono molti che invece di fare lotta alla mafia, la fanno all’antimafia”.
Ciotti ha ribadito che il garantismo va praticato sempre, ma ha anche ricordato che Libera, prima dell’inchiesta, aveva ufficialmente chiesto al governo (in questo caso, Renzi) di non proporre Montante, per motivi di opportunità, nel consiglio direttivo dell’Agenzia nazionale per i beni confiscati; non ottenendo, peraltro, una risposta positiva.
Ha sottolineato l’importanza di mettere in risalto le tante iniziative concrete di lotta alle mafie che quotidianamente attraversano l’intero Paese.
E, riprendendo una sollecitazione di Fava, ha denunciato quanto contenuto nella legge 132/18 (la cosiddetta legge sulla sicurezza), che prevede la vendita dei beni confiscati alla mafia che non trovano un fruttuoso utilizzo.
E’ evidente il rischio, forse la certezza, ha affermato, che i mafiosi, anche usando prestanomi, tornino in possesso di quanto è stato loro sottratto.
Bellu si è soffermato sulla crisi dell’industria dell’informazione e sulle difficoltà di continuare a fare giornalismo con “la schiena dritta”.
In primo luogo perché è sempre più difficile, data la velocità delle notizie e la voluta semplificazione dei problemi, approfondire adeguatamente le tematiche affrontate.
Ma anche perché, sotto la spinta del “clima generale” e di editori spregiudicati, sono state modificate le stesse regole per diventare giornalisti, contribuendo ad abbassarne le qualità.
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