Di mafia, di giornalismo, e soprattutto di quei giornalisti che la mafia la vogliono capire e raccontare davvero, ha parlato a Catania, ospite della libreria Cavallotto, il giornalista di Repubblica Attilio Bolzoni.
Ideatore della collana “Mafie”, edita da Melampo, Bolzoni presenta il terzo volume intitolato “Giornalisti in terre di mafia”.
Il libro raccoglie i brevissimi scritti di una trentina di giornalisti che scrivono dalla Sicilia, Calabria, Campania, ma anche dall’Emilia, dal Veneto, dalla Lombardia.
Dopo anni di gavetta alcuni di loro siedono nelle redazioni di grandi testate nazionali, altri scrivono su giornali di provincia, altri ancora lavorano per televisioni nazionali e locali, radio e siti on line.
Sono inviati speciali, cronisti giudiziari, cronisti di nera. Si occupano di mafia, perché di fenomeni mafiosi si tratta ogni volta che si imbattono in fatti riguardanti la grande criminalità organizzata.
Introdotto da Nicola Grassi, presidente dell’ASAEC di Catania e affiancato da Claudio Fava, giornalista, scrittore, politico, presidente della commissione antimafia della regione Sicilia, Bolzoni ha iniziato il suo intervento denunciando l’incapacità della maggior parte dei giornalisti italiani di raccontare il fenomeno mafia perché ancora fermi a quella di una volta, che Bolzoni chiama mafia degli emarginati, degli straccioni, dove a riempire la scena sta la violenza con il suo corredo di sangue, armi, terrore.
Ma la mafia odierna, una “mafia silente”, che agisce in apparente invisibilità, una mafia in giacca e cravatta, capace di conversare nei salotti buoni, di sedere a tavola con commensali eccellenti, chi è capace di raccontarla?
Perché la mafia, aggiunge Bolzoni, si è come inabissata; infiltratasi nel mondo degli affari e della finanza investe i soldi sporchi in attività legali, e quanti tra i giornalisti hanno consapevolezza di questo avvenuto mutamento, o meglio, la voglia di andarseli a cercare i fatti che richiedono capacità di analisi, pazienza, e tanta fatica per essere compresi?
La mafia siciliana è la più scenografica ma anche la meno pericolosa; anzi, e cita ad esempio il clan dei Corleonesi, quasi moribonda. Bisognerebbe focalizzare lo sguardo su camorra e n‘drangheta, che avendo una struttura molto più fluida sono adattissime a mimetizzarsi e ad agire in una società “liquida” come quella attuale.
Bolzoni lamenta poi un giornalismo che oggi va di gran moda, che ama gli slogan e le spettacolarizzazioni, i luoghi comuni e le banalizzazioni, che spaccia come inchieste il copia-incolla di verbali di polizia anche vecchi, anche smentiti dalle sentenze più recenti, un “giornalismo pataccaro”, così lo chiama nel suo articolo la Capacchione che scrive per Il Mattino di Napoli.
È il giornalismo “che non fa male”, anzi che proprio per il suo conformismo e la sua ovvietà piace e conviene al potere. È il giornalismo che ha messo sul piedistallo la Comunicazione, e l’adora come una dea, mentre l’Informazione se ne sta come Cenerentola in mezzo alla cenere del camino.
Ed è soprattutto il giornalismo compiacente quando non colluso, a volte per semplice vanità, per far parte del giro, del sistema che conta.
I giornalisti invece, secondo Bolzoni, dovrebbero arrivare a scoprire i fatti prima della magistratura, che per forza di cose ha una sua lentezza e che comunque oggi indaga molto sul noto e poco sull’ignoto.
E dovrebbero riscoprire l’importanza delle “fonti”, che sono quelle “che non ti fanno mai sbagliare”, gli altri sono gli informatori, e le fonti vanno curate, a loro va dedicato tempo e pazienza.
Nel corso della serata abbiamo ascoltato gli interventi dei giornalisti Mario Barresi de La Sicilia, Anthony Di Stefano di Sicilia Live e Dario De Luca di Meridio News.
Tutti e tre hanno insistito sull’uso ed abuso delle “querele temerarie”, procedimenti civili per risarcimento danni da diffamazione a mezzo stampa, spesso di puro significato persecutorio e simbolico, con richieste di denaro esorbitanti, che trascinano i giornalisti in processi che durano anni in un paese nel quale nessuna normativa impedisce l’uso strumentale del procedimento civile a scopo intimidatorio o speculativo.
Per Barresi queste querele impediscono a volte un giornalismo di qualità, per Di Stefano quando mancano le tutele e si sperimenta la solitudine, anche tra i colleghi, ti chiedi a volte chi te l’ha fatto fare e se ne vale davvero la pena.
Quando si scrive dagli avamposti criminali per pochi euro ad articolo, nessun editore alle spalle che ti sostiene, e si ricevono minacce “esplicite ed in codice, firmate ed anonime”, continuare a scrivere, non voltarsi dall’altra parte, richiede molto coraggio.
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Un incontro molto interessante, peccato non averlo potuto sapere prima.