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Diciotti, la scelta discutibile della Procura

La Procura di Catania ha chiesto l’archiviazione per Matteo Salvini: secondo il Procuratore della Repubblica Carmelo Zuccaro, il ritardo nel far scendere le 177 persone a bordo della nave Diciotti deve ritenersi «giustificato dalla scelta politica, non sindacabile dal giudice penale per il principio della separazione dei poteri, di chiedere in sede europea la distribuzione dei migranti (il 24 agosto si è riunita la Commissione europea a Bruxelles), in un caso in cui secondo la convenzione SAR internazionale sarebbe toccato a Malta indicare il porto sicuro».
In attesa della decisione del Tribunale dei Ministri, sono necessarie alcune osservazioni con riguardo alla scelta e alla motivazione offerta dalla Procura etnea, le quali pongono diversi dubbi.
Per capire meglio di cosa stiamo parlando, la prima domanda è inevitabile: come funziona il nostro sistema processuale penale in questa fase?
Il nostro ordinamento affida al pubblico ministero la titolarità dell’esercizio dell’azione penale: in poche parole, ciò significa che solo il p.m. può chiedere al giudice di accertare l’eventuale responsabilità penale dell’indagato.
Ciò avviene alla chiusura delle indagini preliminari, momento in cui “il pubblico ministero, quando non deve richiedere l’archiviazione, esercita l’azione penale” (art. 405 c.p.p.).
Si tratta quindi di una scelta secca: richiesta di archiviazione o esercizio dell’azione penale.
Questa scelta è totalmente libera? No, non si tratta di una valutazione di opportunità, ma di una scelta vincolata dalla legge, che individua i presupposti per entrambe le opzioni.
L’archiviazione si può richiedere quando la notizia di reato sia infondata (art. 408) oppure nei casi previsti dagli art. 411 (manca una condizione di procedibilità, ricorre la non punibilità per particolare tenuità del fatto, il reato è estinto o il fatto non è previsto dalla legge come reato) e 412 (reato commesso da persone ignote).

Se non ricorre nessuna di queste ipotesi o nei casi dubbi, il pubblico ministero deve esercitare l’azione penale.
Infatti, com’è stato spiegato dalla Corte Costituzionale (n. 88/1991), la valutazione è sulla superfluità o meno dell’accertamento giudiziale: se l’infondatezza viene ritenuta certa il pubblico ministero chiede l’archiviazione; se è anche solo dubbia l’accertamento da parte del giudice non può essere ritenuto superfluo, quindi si dovrà esercitare l’azione penale, fermo restando che poi la responsabilità penale potrà essere riconosciuta in giudizio solo se accertata oltre ogni ragionevole dubbio.
Per i reati ministeriali, come quello in questione, a pronunciarsi sulla richiesta del pubblico ministero è il Tribunale dei Ministri, in composizione collegiale, il quale può accogliere la richiesta di archiviazione (con decreto non opponibile) o, nel caso di esercizio dell’azione penale, chiedere al pubblico ministero di effettuare una richiesta formale alla Camera di appartenenza (in questo caso il Senato) per ottenere l’autorizzazione a procedere.
Se l’autorizzazione viene ottenuta, poi, il procedimento penale prosegue nelle sue normali forme dinanzi al giudice ordinario.
Perché è prevista questa differenza di trattamento? Perché in questi casi il principio di uguaglianza (tutti i cittadini sono eguali di fronte alla legge) deve fare i conti con la necessità di evitare interferenze del potere giudiziario sull’esercizio del potere esecutivo, in modo da tutelare la separazione dei poteri.
Al Tribunale spetta la valutazione giuridica, cioè l’accertamento delle responsabilità penali, mentre la Camera d’appartenenza compie la valutazione politica, verificando – nell’ambito della sua funzione di controllo sul Governo – se nel caso di specie ci si trovi di fronte a un’interferenza o meno.
Inquadrata così la questione, riteniamo interessante porre alcuni interrogativi.
Era davvero superfluo l’accertamento da parte di un giudice?
Ci troviamo di fronte a una situazione in cui, sulla base di una decisione totalmente discrezionale del Ministro dell’Interno e senza alcun coinvolgimento dell’autorità giudiziaria, 177 persone sono state private della libertà personale per almeno 5 giorni (considerando solo il periodo tra il 20 e il 25 agosto) e detenute in condizioni disumane all’interno di un’imbarcazione.
Il che assume sfaccettature ancora più preoccupanti considerando che si tratta di soggetti vulnerabili: caratteristica che è già insita in chi fugge da guerra e persecuzioni (basti ricordare che la maggioranza delle persone a bordo proveniva dall’Eritrea) e che diviene ancora più accentuata nel caso, ad esempio, di minori (ancor di più se non accompagnati), vittime di tratta, anziani o persone malate.
Tutto ciò, inutile dirlo, si pone in violazione di diritti garantiti a livello costituzionale e internazionale.
La Procura di Catania parla di una «scelta politica, non sindacabile dal giudice penale per il principio della separazione dei poteri». Nel fare ciò, la Procura ammette implicitamente che la notizia di reato non fosse infondata e che quindi ci fosse quantomeno un dubbio sulla sua fondatezza, motivando la richiesta di archiviazione su un caso non previsto dalla legge: la natura politica della scelta.
Ma il pubbico ministero può chiedere l’archiviazione perché il fatto è frutto di una scelta politica? E ancora: se è il p.m. a dire quando la commissione di reati sia una scelta politica o meno, a cosa serve l’autorizzazione a procedere?
Se seguiamo la logica del nostro sistema, il p.m. si dovrebbe limitare a valutare se l’accertamento giudiziale sia superfluo sulla base dei presupposti previsti dalla legge, mentre l’autorizzazione a procedere da parte della Camera d’appartenenza servirebbe proprio a tutelare la separazione tra potere politico e potere giudiziario.
Questo meccanismo, come dicevamo poc’anzi, permette di bilanciare il principio di uguaglianza con quello della separazione dei poteri. E non appare superfluo considerare che nell’eliminare – nel 1989 – la competenza della Corte Costituzionale sui reati ministeriali, restituendoli con le dovute garanzie al giudice ordinario, si è fatta una scelta più orientata al principio di uguaglianza.
Insomma, in questi casi, se ci si trova di fronte a una scelta politica insindacabile lo deve dire eventualmente il Senato, assumendosi le responsabilità politiche e giuridiche (nel caso di conflitto d’attribuzione dinanzi alla Corte Costituzionale) del caso, e non il pubblico ministero.
La scelta di Zuccaro è dunque parecchio discutibile, non da ultimo se si usa come riferimento la stessa idea di Stato costituzionale di diritto, che impone la necessità di porre un freno all’esercizio del potere politico proprio per tutelare l’individuo dall’uso arbitrario del potere.
Nel caso Diciotti, in virtù di un presunto stato emergenziale, questi freni sono venuti meno e abbiamo assistito a una sorta di sospensione del diritto a favore di un esercizio illimitato del potere politico.
Di fronte a un caso così delicato, era necessario che fosse il Parlamento ad assumersi la responsabilità, di fronte al Paese, di un eventuale diniego dell’autorizzazione a procedere e stupisce che sia stato il pubblico ministero a compiere questa “scelta politica”.
Quanto valgono ancora le persone se le possiamo usare indisturbatamente, secondo diritto, come strumento di ricatto per scopi politici? Una prima risposta ce la darà il Tribunale dei Ministri.

Argo

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  • Apprezziamo una “scelta politica” di allontanare dal porto i migranti purché al loro posto si favorisca il turismo marittimo che da decenni prospera nei porti di tutto il mondo ma non nel nostro. Catania può risorgere dall’attuale baratro economico ed occupazionale, con una gestione comunale diretta e non in appalto del suddetto ricco settore turistico. Basterebbe che l’ente portuale dopo avere ignorato per oltre due decenni il settore turistico, si decida a: 1) restituire ad Augusta il settore mercantile dirottato su Catania nella nuova “darsena” abusiva; 2) respingere le richieste avanzate da privati di sconosciuta esperienza nel settore turistico ed approfittatori di un allontanamento migranti, per ottenere un esclusivo “porto turistico” illegittimo e del tutto diverso dai semplici “approdi” legittimati nei porti mercantili; 3) consegnare al Comune la proprietà del monumentale edifico fronte strada “ Vecchia Dogana”, trasformato in discoteca non certo mercantile e perfino affrancata dalle pesanti imposte comunali sopportate da tutti noi cittadini.

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