Per iniziativa de La Ragna-Tela, Le Città vicine e Catania Libri è stato, infatti, presentato il libro “Leda. La memoria che resta” di Anna Paola Moretti e Maria Grazia Battistoni, che hanno fatto un eccellente lavoro di ricerca per recuperare la memoria di questa giovane partigiana.
“La sua storia è un’occasione per ‘riguardare’ la presenza delle donne nella Resistenza, che fu partecipazione di massa, silenziosa, anonima, collettiva, ricercando le parole delle protagoniste e il senso che diedero alle loro azioni”.
Con questo spirito, si sono confrontati con le autrici Domenico Stimolo e Sara Crescimone, dopo un’introduzione di Anna Di Salvo che ha sottolineato la figura di questa donna “molto giovane ma capace di scelte determinate, che ha qualcosa di significativo da dire a donne e uomini non solo sulla ricerca di libertà dall’occupazione straniera e dall’ideologia fascista, ma anche sulla ricerca di una misura per sé, senza dover corrispondere a modelli imposti, neppure a quelli emancipativi”.
Cinzia Colajanni, componente della rete La Ragna-Tela, ci ha inviato una sintesi del dibattito, che volentieri pubblichiamo.
La vita di Leda può essere considerata una rappresentazione del rapporto donna-Resistenza.
Leda mette a repentaglio la vita non solo per dare il proprio contributo alla liberazione degli italiani dall’ideologia fascista e dall’occupazione nazista ma anche per un bisogno di riscatto personale.
Come lei, le donne della Resistenza decisero di agire per una libertà futura, declinabile perché già presente in ciascuna di esse.
La mentalità patriarcale e maschilista, presente anche nelle menti dei partigiani, sopita durante il periodo della lotta armata, riaffiorerà in tutta la sua virulenza quando, al ritorno alla normalità, dovendo ripristinare gli atavici ruoli degli uomini e delle donne, si celebrerà la Resistenza come guerra di uomini, “supportati amorevolmente” dalle cure di madri, mogli e figlie.
A poco servirà, per il riconoscimento della eroicità di Leda, avere perso la vita, perché oltre al suo essere donna un altro elemento metterà in ombra il suo sacrificio, l’avere combattuto senza armi.
Si dovrà attendere la fine del Novecento perché si affermi il concetto di Resistenza civile. Solo allora si darà importanza a chi ha messo a repentaglio la propria vita non con gesti che comunemente gli uomini considerano eroici ma con gesti per così dire semplici ma assolutamente necessari per la sopravvivenza di chi si trovava in prima linea, nelle montagne o nei luoghi di preparazione delle azioni di guerriglia; necessari anche per le azioni di ribellione della cittadinanza, che era il principale bersaglio di quella guerra, azioni di cui soprattutto le donne si erano rese protagoniste.
“Le staffette sapevano che, se catturate, avrebbero dovuto affrontare carcere e interrogatori, il rischio delle torture e degli stupri, anche la deportazione , come è stato in alcuni casi. Non era una mansione che si potesse compiere inconsapevolmente. La loro azione era pericolosissima e il loro ruolo non residuale; in un esercito regolare queste mansioni erano compiute da ufficiali di collegamento”.
Scrive ancora Pietro Secchia “Le staffette costituivano un ingranaggio importante della complessa macchina dell’esercito partigiano. Senza i collegamenti assicurati dalle staffette le direttive sarebbero rimaste lettera morta, gli aiuti, gli ordini, le informazioni non sarebbero arrivati nelle diverse zone”.
E’ ormai riconosciuto, numeri alla mano, che l’esercito di liberazione, considerando le forze combattenti e le forze d’appoggio, era composto in maggioranza da donne e che senza esse non sarebbe stata possibile alcuna azione militare.
Non generico contributo alla lotta quindi ma condizione indispensabile per lo sviluppo della Resistenza.
A febbraio del 1945 (due mesi prima della sua morte) Leda prova a scrivere un diario perché vuole fare conoscere la sua storia smentendo il luogo comune sulla “modestia” delle donne che non avrebbero voluto riconoscimenti.
Uomini hanno deciso che le donne che avevano partecipato alla Resistenza volevano l’anonimato. Le autrici ricordano che in una pubblicazione per “ l’anno internazionale della donna”, nel 1975, la Presidenza del Consiglio dei Ministri scriveva: “Ci siamo astenuti da citare i nomi di queste eroine perché abbiamo ritenuto doveroso rispettare il carattere che le donne italiane hanno voluto dare alla loro generosa ed eroica partecipazione. Le donne italiane della Resistenza vollero infatti partecipare alla lotta per la libertà in modo collettivo e anonimo”.
In realtà le donne non chiesero riconoscimenti perché pensavano che ciò che avevano fatto fosse semplicemente doveroso, anche se alcune non volevano rendere noto ciò che avevano fatto per ragioni di prudenza.
Le condizioni eccezionali scaturite dalla guerra permisero di sorvolare su un comportamento pubblico che non fu considerato possibile mantenere, per donne rispettabili, in un paese ormai pacificato. Sembrò naturale rinchiudere nuovamente le donne in casa ed esse trovarono impossibile tradurre, nella mutata situazione, l’esperienza vissuta.
Le donne, partecipando alla guerra, avevano cominciato a ripensare il mondo e a rifondare valori. Non si sentivano più madri o figlie ma persone. La loro partecipazione ebbe quindi un carattere politico, anche se l’occultamento di questo carattere politico fece sì che le donne della Resistenza fossero rappresentate come figure secondarie di cui, nei documenti e nelle ricorrenze pubbliche, si poteva anche non dirne il nome.
Così tante figure di rilievo sono state a lungo ignorate.
Uomini e donne ebbero comunque un diverso modo di vivere la Resistenza, anche quando le donne combatterono con le armi. La diversa identità sessuale le porta infatti a percepire il mondo in termini di vita e di creazione e non di morte e distruzione.
E questa pratica orientata alla vita spiega la richiesta finale avanzata alla famiglia da Leda: non fare vendette, anche se si conoscevano i nomi dei suoi delatori.
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