Se ne sono risentiti i movimenti non violenti che hanno rivendicato il loro costante operato in una lettera aperta inviata, in particolare, a chi si occupa di informazione.
I firmatari rivendicano la mobilitazione pacifista realizzata a partire dall’appello “Cessate il fuoco!”, a cui hanno aderito “oltre 100 organizzazioni, tra associazioni, sindacati, partiti, comitati, gruppi e singole persone”, presentata in conferenza stampa il 13 aprile in piazza Santi Apostoli, e si chiedono perchè mai i giornali, “con lodevoli eccezioni”, non ne abbiamo parlato. Con che faccia allora chiedersi dove siano i pacifisti?
Ma c’è di più. I movimenti pacifisti – scrivono – sanno scendere in campo con azioni di coraggiosa denuncia, non solo verbale.
Il riferimento è alla denuncia penale, alla Procura della Repubblica di Roma, che La Rete Italiana per il Disarmo, il Centro Europeo per i diritti umani ((ECCHR) e l’organizzazione yemenita Mwatana, hanno appena presentato perchè venga avviata un’indagine sulla responsabilità penale dell’UAMA (Autorità italiana che autorizza le esportazioni di armamenti) e degli amministratori della RWM Italia S.p.A., azienda che produce armi destinate ai membri della coalizione militare guidata dall’Arabia Saudita, coinvolti nel conflitto in Yemen.
In Yemen, infatti, ci sono responsabilità anche italiane negli attacchi aerei contro i civili, quegli stessi a cui ipocritamente si destinano aiuti umanitari dopo aver speculato sulla costruzione ed esportazione degli ordigni con cui vengono colpiti.
I pacifisti di oggi, quind, non si limitano a scendere in piazza con la bandiera arcobaleno partecipando a cortei autoreferenziali.
Sono invece presenti nei conflitti reali, attivi nella costruzione di reti di relazioni, autori di campagne talora vincenti, come quella contro le bombe a grappolo e le mine antiuomo, contro il trattato sul commercio delle armi e quello per la messa al bando delle armi nucleari, per cui hanno ottenuto il Nobel per la pace 2017.
Studiano ed elaborano analisi, raccogliendo dati sul controllo dell’export di armi, denunciando le falle del progetto F35 e la crisi umanitaria yemenita, ancor più grave di quella siriana.
Formano e inviano i “giovani del servizio civile come Corpi Civili di Pace in aree di conflitto o a rischio, vere missioni di pace”, un modo responsabile di realizzare “il dovere costituzionale della difesa della Patria, che non è solo difesa militare”.
Perchè, è bene ribadirlo, il pacifismo odierno non è un fenomeno imbelle ma una forma di ‘non-violenza’ attiva e coraggiosa.
I firmatari non risparmiano un invito finale ai giornalisti ‘non da salotto’ che vogliano uscire dalle redazioni e consumare un po’ di suole delle scarpe: visitare le sedi dei movimenti per la pace dove abbondano materiali, archivi, persone che varrebbe la pena intervistare.
E li sollecitano a chiedersi non solo dove siano i pacifisti, ma – almeno ogni tanto – dove sono le missioni militari, quante sono, cosa fanno, quanto costano, che risultati hanno ottenuto: “sarà molto interessante comparare costi e benefici nel settore militare e costi e benefici nel settore della prevenzione nonviolenta dei conflitti.”.
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