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Israele e la 'Terra promessa'

Il governo israeliano sempre più frequentemente suggerisce ai suoi ambasciatori negli stati occidentali di sostenere le idee israeliane sulla gestione dei territori palestinesi facendo leva, in modo più o meno scoperto, sui contenuti della Bibbia.
Molti diplomatici vengono invitati a fare riferimento, anche in circostanze pubbliche, a quanto affermato nella Bibbia, come se questa fosse un ‘trattato internazionale’ in cui tutta la Palestina, la ‘Terra promessa’, sarebbe stata assegnata inequivocabilmente al popolo ebraico.
Accade così che una funzionaria del governo israeliano affermi che qualsiasi rivendicazione o protesta della popolazione palestinese sia meno importante della “Promessa di Dio al popolo ebraico”. I Palestinesi, pertanto, o si adattano al volere di Dio o se ne vanno. Non c’è altra scelta per loro.
Ne parliamo con Franco Battiato, sacerdote della parrocchia dei Santi Pietro e Paolo, che da molti anni guida il commento alla Parola di Dio in questa comunità.
Cosa dice veramente la Bibbia sull’assegnazione divina del territorio palestinese agli ebrei e come interpretare oggi tali testi?
Innanzitutto, bisogna distinguere tra la sostanza del messaggio e la sua formulazione linguistica, che risente della cultura del tempo in cui tali scritti sacri furono elaborati.
In realtà, le affermazioni e le promesse di Dio nell’Antico Testamento sono universalistiche e riguardano tutta l’umanità. Il popolo “eletto” ha semmai la funzione di trasmissione del messaggio a tutti i popoli. La tradizione profetica (Isaia, Geremia e altri…) ancor più chiaramente si riferisce al mondo intero. Anche la promessa fatta ad Abramo è rivolta all’umanità, per ben tre volte: “Per mezzo tuo io benedirò tutti i popoli della terra” (Genesi 12, 3); similmente, vedi anche Genesi 18, 18 e Genesi 22, 18.
Viene ormai riconosciuto che il linguaggio dell’Antico Testamento è fortemente simbolico e non è quindi corretta una sua interpretazione letterale, che avrebbe così delle connotazioni nazionalistiche. Su questi concetti è ormai d’accordo la maggioranza degli esegeti, ad eccezione di una frangia molto tradizionalista e conservatrice. Ma, si sa, quando una religione con un definito impianto dottrinario dura sufficientemente a lungo, inevitabilmente entra in contrasto con la cultura, perché le sacre scritture restano immutabili, mentre la cultura progredisce.
La chiave di lettura corretta rimane il simbolismo di ciò che viene narrato. La stessa terra di Canaan simboleggia tutta la terra, affidata da Dio all’uomo. Le famose dieci piaghe d’Egitto (Esodo, capitoli 7-12) sono chiaramente simboliche, non rappresentano fenomeni realmente accaduti e riflettono fortemente la mentalità, la cultura, il linguaggio dell’epoca.
Nonostante le sue timidezze e le sue insufficienze, la diplomazia internazionale (per esempio l’ONU) può considerarsi certamente “laica”. Inoltre, nelle democrazie occidentali, a cui Israele si vanta di appartenere, la separazione dell’ambito civile e politico da quello confessionale è ormai consolidata.
Alla luce di queste considerazioni e di tutto il pensiero moderno, come rispondere a quelle pretese territoriali di Israele che traggono origine dalla religione ebraica?
Come conseguenza della risposta al primo quesito e in considerazione delle premesse a questo secondo quesito, l’unica risposta possibile è che le pretese territoriali di Israele fondate sull’assegnazione divina del territorio (per giunta male interpretata) non possono avere alcun fondamento.
  “catanesinpalestina”

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  • A parte la mia strutturale difficoltà a prendere sul serio affermazioni quali l'appartenenza alla "terra promessa" come argomento per una rivendicazione del proprio diritto sui territori di Cisgiordania e Gaza, mi ha poi stupito che siano stati chiesti ragguagli ad uno studioso e teologo cattolico, che peraltro conosco bene e di cui ho grande stima. Il cristianesimo, a parte la comunanza di gran parte delle Sacre scritture contenute nella Bibbia e in particolare nell’Antico Testamento, costituisce una distinta confessione religiosa rispetto all’ebraismo, anche per una radicalmente diversa concezione Messianica, sarebbe stato quindi preferibile interpellare sul problema un rabbino, o comunque un esperto di religione e cultura ebraica. Ma forse, per una riflessione storica sul tema della “terra promessa”, converrebbe risalire alle origini del movimento sionista, che era invece profondamente laico. Da un punto di vista politico, anche per spiegare la svolta a destra della società israeliana, occorre invece riandare agli sviluppi successivi alle guerre dei 6 giorni (1967) e soprattutto del Kippur del 1973, e alla (sciagurata, secondo me) decisione di consentire agli integralisti religiosi di colonizzare progressivamente i territori palestinesi di Cisgiordania e Gaza. Scelta tombale per il processo di pace con i palestinesi, ma, in prospettiva, anche per l’esistenza stessa di una sinistra israeliana.

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