Introdotta in modo vincolante dalla Buona Scuola (legge 107/2015), l’alternanza scuola-lavoro sembra voler rispondere alla legittima esigenza di mettere in contatto scuola e mondo del lavoro, ma lo fa in modo assolutamente non idoneo e ben lontano dai consolidati modelli stranieri.
Si potrebbe fare, ad esempio, un confronto con la Germania, dove il cosiddetto sistema ‘duale’ non è previsto per tutti ma solo per alcuni percorsi formativi, prevede un reale inserimento in azienda, retribuito e con ferie pagate, e fornisce competenze professionali certificate che permettono di entrare a pieno titolo nel mondo del lavoro.
Nulla di simile nel nostro sistema, dove non si introduce una formazione specifica da acquisire svolgendo un vero lavoro, ma viene solo fissato – a seconda del tipo di scuola – il monte ore da dedicare ad attività da svolgere con “imprese ed enti pubblici e privati disponibili”, lasciando l’organizzazione, in toto, sulle spalle delle scuole, a partire dalla individuazione dei soggetti presso cui svolgere i percorsi.
La conseguenza è una grande eterogeneità di percorsi con il rischio che, pur di ottemperare all’obbligo, le singole scuole accettino proposte di bassa o bassissima qualità, non utili alla formazione degli allievi e non coerenti con il corso di studi.
E’ evidente che siano i licei le scuole che hanno maggiori difficoltà nel trovare attività coerenti con le caratteristiche del corso di studi, non li aiuta nemmeno il registro delle imprese disponibili alla collaborazione, che si trova presso le camere di commercio.
Ma nel nostro territorio, e in particolar modo nelle aree più interne, le possibilità sono poche anche per gli altri tipi di scuola, vista la povertà dell’apparato produttivo.
Le poche aziende esistenti hanno spesso problemi di sopravvivenza e non hanno interesse ad investire nella collaborazione con le scuole, neanche nella prospettiva di usufruire delle agevolazioni previste per eventuali assunzioni dei ragazzi.
Un’azienda importante come la ST ha sì aperto le porte ad esperienze di Alternanza, ma solo per un numero molto limitato di ragazzi e per poche ore.
Troppo poco, considerato che gli studenti che devono fare questa esperienza sono tutti quelli del triennio delle scuole superiori, migliaia di ragazzi solo nella nostra città. E ognuno di essi deve svolgere 200 ore di Alternanza se frequenta un liceo, 400 ore nel caso di istituti tecnici e professionali.
La tentazione di ripiegare su corsi on line è comprensibile, pur nella consapevolezza che, al di là della qualità, si tratta di esperienze virtuali. Ci si iscrive, si paga una quota, e i ragazzi seguono 80/100 ore di corso, ad esempio di impresa formativa simulata.
Ci sono anche corsi non virtuali di educazione imprenditoriale, ma si tratta comunque di ‘esperienze’ teoriche su come mettere su un’impresa, dalla analisi di fattibilità alla strategia di mercato ai canali di distribuzione.
Soprattutto per i licei, gli interlocutori sono spesso Enti pubblici, dal Comune alla Soprintendenza, dal CNR all’Università. Oppure associazioni ambientaliste o culturali, giornali (corso di giornalismo), etc.
Non sempre l‘ente contattato è disponibile a collaborare. Deve infatti mettere a disposizione il personale incaricato di seguire i ragazzi (personale che dovrebbe anche essere in grado di comunicare efficacemente con i giovani) e spesso anche i locali.
La scuola contribuisce con l’acquisto di eventuali materiali necessari per le attività e con personale proprio. Provvede anche al trasporto, una spesa non indifferente nel caso di scuole situate in centri periferici, lontani dalla città; utilizza, per queste spese, il Fondo per l’Alternanza, che prevede la cifra irrisoria di 20 euro per studente.
Altra soluzione è quella di realizzare dei ‘moduli interni‘, che possono essere banali o avere reale valenza formativa, come ad esempio quelli sulla storia della città, sulla custodia del patrimonio archeologico o architettonico, sul funzionamento di un museo (es. il Castello Ursino). Percorsi realizzati con bandi per personale interno e non, o utilizzando gli insegnanti di potenziamento, sempre comunque in economia.
Sono possibili anche percorsi individuali, per ragazzi pendolari o all’estero, impegnati al Conservatorio o in attività di volontariato, o anche che lavorano d’estate. Si tratta però di casi sporadici che comunque pongono dei problemi. Ad esempio, quando la classe è impegnata con attività di Alternanza, lo studente che segue un percorso individuale cosa fa?
L’impatto delle ore di ‘alternanza’ con l’attività didattica rimane un problema per tutti. In un contesto di crescente impoverimento culturale e lingusitico, il tempo dedicato a queste attività, talora improbabili, è comunque sottratto alla didattica, anche al netto degli inevitabili tempi morti.
L’introduzione dei percorsi di alternanza scuola lavoro è recente. Le sue ricadute si vedranno con il tempo ma certo molto dipende dalla qualità delle attività proposte. Già oggi gli studenti mostrano più o meno interesse per queste esperienze. In alcuni casi le subiscono annoiandosi, altre volte si coinvolgono al punto da dedicare ad esse più tempo del dovuto, esprimendo anche il desiderio di proseguirle.
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Finalmente un ragionamento almeno parzialmente privo di pregiudizi – titolo a parte - su un aspetto centrale della legge sulla buona scuola
Si evince che questa alternanza scuola-lavoro è stata introdotta senza una razionale progettualità. Come sempre queste iniziative calate dall'alto non coinvolgono quasi per nulla la classe docente.
Comunque il discorso è molto complesso e andrebbe affrontato facendo dialogare scuola e mondo del lavoro .