“Chiesa di tutti Chiesa dei poveri”, espressione usata nel 1962 da Giovanni XXIII poco prima dell’inizio del Concilio, indica oggi una rete di gruppi ecclesiali che si incontrano periodicamente per confrontarsi su cosa significhi oggi essere Chiesa, in particolare nella nuova stagione inaugurata dal pontificato di Francesco.
Nella assemblea dello scorso 2 ottobre, a cui ha partecipato un gruppo di Catania, il teologo Giuseppe Ruggieri ha svolto una relazione di cui oggi vi proponiamo una sintesi. L’audio si può trovare, insieme a quello degli altri relatori, sul sito I viandanti.
L’invito ad entrare nella casa del Padre, ricco in misericordia, che ci viene rivolto da papa Francesco ha un elemento di novità.
Una novità che non consiste nella riforma della curia che, a parere di Pino Ruggieri, non è riformabile, “a meno che non si tratti di togliere quella che papa Benedetto chiamava sporcizia”. I poteri della curia, infatti, sono quelli che il papa ha avocato a sé togliendoli ai vescovi lungo il secondo millennio.
Va riformato quindi il papato. E a questa riforma papa Francesco ha dato appena avvio, cominciando a togliere alla curia (cioè a se stesso) il potere esclusivo di dichiarare nulli i matrimoni e di tradurre la Bibbia.
La novità di papa Francesco non sta nemmeno nel fatto di dormire fuori dal palazzo o in tanti altri gesti che fanno notizia sui media.
Essa sta invece in un invito a far festa con quanti prima erano esclusi. Dopo tanti anni, infatti, dai tempi gioiosi di papa Giovanni e del concilio che egli aveva convocato contro tutti i profeti di sventura, era subentrata progressivamente la paura, madre di tutte le condanne, esclusioni, sospetti.
Francesco invita a riscoprire l’annuncio di un regno dove entrano tutti coloro che le chiese di allora, le sinagoghe, non accoglievano perché lebbrosi, storpi, ciechi, muti, peccatori, poveri che non conoscevano nemmeno la legge ma erano assetati di giustizia.
Il disagio che molti, anche vescovi, avvertono davanti a questo invito nasce dall’abitudine di confondere il vangelo con la dottrina e con la disciplina della chiesa.
Ma il vangelo è la forza stessa dell’amore di Dio per l’uomo, è Gesù stesso, il Gesù che conosciamo attraverso i vangeli come dono totale del Padre agli uomini
“I Sinottici – afferma Ruggieri – ci dicono che davanti al pianto di una povera vedova per la morte del figlio unico, davanti allo spettacolo del popolo che vagava come pecore senza pastore, o davanti a un lebbroso che in ginocchio lo pregava per essere purificato, Gesù si ‘commosse fin nelle viscere’ (esplagnisthe, traducendo così il termine che nell’Antico Testamento indica l’amore materno di Dio, rehem/rahamim, l’utero, il seno materno).
“In un meraviglioso capitolo del libro, purtroppo non più in commercio, “Gesù prima del cristianesimo“, Albert Nolan, domenicano del Sudafrica, colui che ispirò il più famoso documento di condanna dell’apartheid, descrive questi esclusi, sofferenti, peccatori, “ai quali Gesù rivolge la sua attenzione. I nomi usati nei vangeli sono tanti: poveri, ciechi, storpi, sciancati, lebbrosi, affamati, miserabili (coloro che piangono), peccatori, prostitute, esattori, demoniaci (coloro che sono posseduti da un spirito impuro), oppressi, carcerati, coloro che faticano per il sovraccarico, la plebaglia che non conosce nulla della legge, le folle, i piccoli, i minimi, gli ultimi e i bambini, le pecore perdute della casa di Israele. Per i farisei essi erano peccatori o plebaglia che non conosceva nulla della legge.” (Jesus before Christianity, 1992, 27-28).
Gesù, prosegue Ruggieri, “non venne in primo luogo a purificare l’uomo dal peccato o per annunciare il giudizio di Dio (come Giovanni Battista)”. Egli non era venuto per i sani ma per i malati. Per questo gli esclusi tutti furono i privilegiati di Gesù, entravano a casa sua, sedevano alla sua mensa.
Anche i discepoli che sperimentano la forza creativa dell’accoglienza di Dio, ricevono gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, “toccano” la carne sofferente di Cristo nel popolo, si commuovono fin nelle viscere per la sofferenza degli uomini e delle donne che incontrano, si caricano della loro miseria, li liberano dal dominio del peccato che domina il mondo.
Perchè questo non sia solo un bel discorso, il vangelo che si annuncia deve diventare operante, essere percepito come comandamento concreto rivolto a me, che mi spinge all’azione nella situazione in cui io vivo. Questo implica la lettura di questa situazione, con tutte le sue contraddizioni.
“Per Dietrich Bonhoeffer, questo significò non solo la netta presa di distanza da Hitler, ma altresì il distacco dalla sua chiesa che era chiesa di stato, per aderire assieme a tanti altri alla chiesa confessante. Significò ulteriormente, andando oltre le titubanze della stessa chiesa confessante, la scelta di coinvolgersi nella cospirazione per l’uccisione del tiranno. E questa non fu una decisione facile. C’erano due obiezioni da superare. La prima: come mescolare il vangelo, la Parola di Dio, con una scelta umana, storicamente discutibile, e fare di questa scelta la proclamazione vivente del vangelo? La seconda: come evitare di peccare in una scelta che, soprattutto per un luterano, implicava una smentita della teologia ufficiale dell’autorità dello stato? Oltre tutto, assieme a compagni di congiura che si professavano atei, conducendo una vita semiclandestina, mentendo davanti ai tribunali?
“In altri termini, portiamo il tesoro del vangelo in vasi fragili. Il vangelo resta affidato alla nostra libertà. Ma soprattutto, e qui sta la risposta alla seconda obiezione, il vangelo comporta persino un’assunzione di colpa, che imita il Cristo stesso che per noi fu “fatto peccato”. Caricarsi dell’altro e dei suoi pesi implica caricarsi anche del suo peccato.
E Bonhoeffer “peccò”, dichiarandosi disponibile ad uccidere personalmente Hitler, lui pacifista che non aveva mai tenuto in mano una pistola, e mentendo e nascondendo la verità davanti ai giudici che lo interrogavano, contravvenendo così alla rigida moralità kantiana nella quale era stato educato.
“La grammatica necessaria ad una lettura dei segni dei tempi è – prosegue Ruggieri – quella delle Beatitudini. Le Beatitudini, piuttosto che descrivere una scala della perfezione morale, ci aprono la mente per comprendere il modo in cui Dio stesso guarda al povero, al mite, al puro di cuore, al perseguitato per la giustizia, a colui che piange etc. Le Beatitudini cioè non contengono in primo luogo un elenco “etico” delle virtù umane, ma descrivono i sentimenti di Dio, l’oggetto della sua compiacenza”.
Esse “qualificano la storia attualmente vissuta dagli uomini e dalle donne, come una storia contraddistinta dalla divisione in vittime sconfitte da una parte e vincitori violenti dall’altra, come storia radicalmente diversa, altra rispetto alla storia voluta da Dio”.
L’invito di papa Francesco – conclude Ruggieri- è rivolto non a un gruppo di cattolici progressisti, non alla sola chiesa cattolica, ma a tutte le chiese e a tutti gli uomini e a tutte le donne che si vogliono caricare del peso della storia attuale, con tutte le contraddizioni e i drammi che la caratterizzano.
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