Un film disertato dal pubblico italiano ma che varrebbe la pena vedere. Ce ne parla oggi Giordana Giuffrida, operatrice culturale cinema King-Cinestudio, con un’analisi che pone anche una serie di interrogativi sulla qualità del nostro vivere civile e sul ruolo del cinema e dell’arte in genere.
Parigi, primi anni ’90. Act Up Paris combatte senza sosta con dimostrazioni anche plateali per fare breccia nel silenzio e nell’indifferenza del governo francese – e di conseguenza dei media e quindi di parte dell’opinione pubblica – rispetto all’epidemia di Sindrome da Immunodeficienza Aquisita – SIDA (in Italia, più esterofili, lo chiamiamo AIDS) in corso nel Paese.
La Francia aveva infatti molti più contagiati di Paesi come la Germania, con un’incidenza particolarmente drammatica tra gli omosessuali, e le politiche governative e sanitarie erano totalmente insufficienti.
Il film ci conduce direttamente dentro le riunioni di Act Up e dietro le quinte delle loro dimostrazioni, ci parla delle loro vite, dei loro metodi, delle loro ragioni, del loro impegno, dei loro dissidi interni, della loro gioia di vivere. Soprattutto, del tempo che sanno di non avere in abbondanza nonostante la giovane età, essendo quasi tutti sieropositivi e malati.
Un’esplosione di vita, nel senso più ampio del termine, un film che meriterebbe per forma e contenuti ogni attenzione. Molto esplicito, cosa che in Italia gli è costata il divieto ai minori di quattordici anni e forse, chissà, la diserzione del pubblico dalle sale.
Che in particolare in Italia il film non stia suscitando interesse è purtroppo indicativo dello stato culturale in cui versa (ancora? di nuovo? di più?) il nostro Paese soprattutto rispetto a questi temi.
A proposito dell’assenza di pubblico la Teodora, distributore del film, ha twittato: “Fiasco in Italia per #120BattitiAlMinuto che nel mondo riempie le sale: e anche la comunità LGBT diserta il film. Ve lo meritate Adinolfi”.
Comprendendo l’amarezza, che è anche la nostra, per il fatto che un film del genere venga semi-ignorato; deprecando i modi; segnalando che il film ha avuto una distribuzione molto (troppo?) “di nicchia” in appena quaranta sale su tutto il suolo nazionale; rabbrividendo perché Adinolfi non se lo merita nessuno… la cosa più importante che questo tweet ci rivela è un’altra.
È l’idea sempre più diffusa evidentemente, e forse ormai vincente, che a ciascuno possano o addirittura debbano interessare solamente i fatti propri. Solo ciò che lo riguarda in prima persona.
Perché mai, altrimenti, apostrofare la comunità LGBT che pure è variegata al suo interno come qualsiasi comunità umana e non si vede perché debba andare a vedere in massa un film?
Proponendo film nelle scuole capita sempre più spesso di sentirsi dire che la guerra/la natura umana/il lavoro/la condizione femminile non sono argomenti per ragazzi, che bisogna suggerire qualcosa che li riguardi da vicino.
Comprensibile forse, ma non in maniera esclusiva, perché come persone tutto ci riguarda e il rischio è una società sempre più egoista ed egocentrica in cui ciascuno si guarda le punte dei piedi incurante del prossimo a meno che non appartenga alla propria “categoria”.
Il cinema e l’arte in generale servono anche ad allargare i propri orizzonti, ad accrescere la propria capacità di empatia e immedesimazione nell’altro, a conoscere cose nuove o approfondire vecchie conoscenze.
Il tweet di Teodora oltre a decretare che ci sono film per tutti e film solo per alcuni tradisce un problema che è culturale e che può e deve essere affrontato con ben altro impegno delle invettive sui social.
Per esempio dando una reale possibilità a un’opera, invece di ghettizzarla stabilendo a priori che sia quasi esclusivamente appannaggio di una minoranza e piazzandola in appena quaranta sale.
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