Queste lettere di emigranti siciliani in Germania dicono poco sulle giornate ‘straniere’ dei loro autori, sul lavoro, la fabbrica, i turni, a cui si accenna soltanto.
Tacciono sul nuovo ambiente e la nuova vita, o meglio e non vita, volutamente rigettata, mentre la lontananza rende vivi il paese natio suoi abitanti, le sue feste, le sue campagne.
Così scrive Maria Di Venuta in suo saggio su “L’angoscia laica di Antonio Castelli” pubblicato negli atti del convegno “Scrivere la Sicilia, Vittorini e oltre” (Ediprint, 1985).
“I veri protagonisti – sono le parole usateda Di Venuta – sono le mogli, i figli, il paese abbandonato, la vigna, i vaglia sistematicamente inviati”.
Dell’emigrazione meridionale emerge soprattutto il versante intimistico e tenero. Castelli scandaglia i sentimenti e cerca di “vedere e sentire come si comportano le radici” strappate dalla loro sede primigenia.
“Cara Antonietta io lo so che la vita che facciamo noi per adesso è troppo brutta di non stare abbracciati stretti come due colombi ma il tempo passa e sarà un nuovo raggio di sole che ci riscalda dopo tutta questa lontananza che se io ero al posto di Giacomo mi sarei stato a casa con mezzo pane e non diventare come i zingari. Sono due mesi che sono distaccato da quel nido caldo in cui ò passato un po’ della mia gioventù che mi pare di passare degli anni.”
E ancora, “Cara Antonietta questi righi saranno tristezza anche per te io lò scritto asciugandomi le lagrime per ogni rigo e tu certamente di più di me che la nostra gioia finirà troppo presto”.
Tra i momenti di gioia raccontati, l’arrivo di una cartolina inaspettata o di un pacco che contiene “un po’ di bustine di aranciata due mappine da tavola per il muso un pochino di rigano scuzzolato”.
Pagine che ci parlano di sentimenti di solitudine e nostalgia, ancora oggi drammaticamente vissuti da chi è costretto, dalla necessità, a lasciare la propria terra natale.
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