Raccontare un’esperienza con l’obiettivo di rendere giustizia a quelle popolazioni che chiedono non aiuti in denaro ma di parlare al mondo intero, di informare il maggior numero di persone di quello che accade in Palestina, della politica di apartheid perpetrata dal governo israeliano a loro danno.
E’ questo il motivo per cui è nato il libro “Educare alla pace: la questione palestinese”, presentato qualche settimana fa nella biblioteca Navarria Grifò di via Naumachia e due giorni addietro al circolo Olga Benario.
Scritto a più mani da Agata Nicolosi, Vincenzo Pezzino, Laura Sciacca, Giuseppe Strazzulla, è una testimonianza diretta delle condizioni di oppressione e discriminazione – da parte del governo israeliano – in cui oggi si trova il popolo palestinese.
Gli autori hanno infatti partecipato, nell’estate del 2015, ad un Pellegrinaggio di Giustizia in Palestina organizzato dalla campagna “Ponti non muri” del movimento Pax Christi, di cui Argo ha già parlato, e vogliono oggi riaccendere i riflettori sulla interminabile vicenda di forzata convivenza tra palestinesi e israeliani.
Il testo si presta sia ad un uso didattico per gli insegnanti che intendano far conoscere ai propri alunni le vicende storiche e le condizioni attuali del popolo palestinese sia come manuale per qualunque lettore che voglia documentarsi. Contiene anche interessanti materiali didattici e documenti di organismi sovranazionali, pubblici e privati, a difesa e sostegno della causa palestinese.
Questi organismi hanno denunciato Israele per la sua politica di violazione di tutti i diritti nei confronti del popolo palestinese.
Un esempio è il divieto di commemorare il giorno della Nakba, il 15 maggio 1948, quando Israele cacciò i palestinesi dalle loro case facendoli diventare dei rifugiati. Israele invece commemora la shoah.
I relatori, avvicendandosi nel racconto, hanno riportato alcune testimonianze significative come quella dei pastori palestinesi delle colline a sud di Hebron, i quali hanno deciso di scegliere un modello di resistenza nonviolenta di fronte alle sopraffazioni degli Israeliani: “distruggono i nostri alberi di ulivo e noi li ripiantiamo!”
Oppure l’esperienza della “tenda delle Nazioni”, una fattoria multifunzionale situata sulle colline di Betlemme, appartenente a Daoud Nassar e ai suoi fratelli, dove all’ingresso della proprietà si legge “rifiutiamo di essere nemici “.
Anche se con grandi difficoltà questa famiglia conduce la sua battaglia legale per dimostrare allo stato di Israele, che dal 1991 ha dichiarato tutta l’area “terra di Stato”, la legittimità del possesso della terra, attestata – come ha raccontato Agata Nicolosi – da un atto di acquisto risalente al 1916, iscritto nel registro ufficiale.
La testimonianza più appassionata e più toccate è stata portata da suor Donatella Lessio, intervenuta alla presentazione del 24 giugno.
Da circa 13 anni lavora come infermiera presso il Caritas Baby Hospital di Betlemme, un moderno ospedale pediatrico fondato da padre Ernest Schnydrig dopo aver visto, alla vigilia del Natale del 1952, un padre disperato seppellire il proprio figlioletto morto nelle vicinanze di un campo profughi, proprio a Betlemme.
Turbato da questa scena, Schnydrig affittò una casa dove mise 14 letti e la chiamò Caritas Baby Hospital. Da quel momento a nessun bambino di qualsiasi appartenenza religiosa viene negata l’assistenza medica.
L’ospedale, che ha due reparti di pediatria e uno di neonatologia, accoglie circa 4 mila piccoli degenti l’anno ed è finanziato con fondi e donazioni private .
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Donatella ha raccontato delle grandi difficoltà che bisogna affrontare quando bisogna trasferire, con le autoambulanze, i bambini gravemente ammalati da Betlemme all’ospedale di Gerusalemme, più attrezzato per patologie più complesse. Un check point, infatti, controlla e limita gli spostamenti dei Palestinesi.
E’ necessario ottenere permessi e lasciapassare per attraversare il muro, lungo 800 km, costruito da Israele in Cisgiordania. Un muro che, oltre a dividere fisicamente e psicologicamente le persone, le nasconde le une alle altre.
E crea impedimenti e occasioni di ritardo che possono mettere a rischio la vita di un bambino.
E se, come ha detto suor Donatella, “vedere morire una persona fa male, vedere morire un bambino fa ancora più male, ma vederlo morire perché non può passare il check point non è proprio tollerabile”.