Ezel è una rappresentante del movimento delle donne curde in Italia; il luogo dove è cresciuta, ricevendo le cure e le attenzioni di tanti “genitori”, è Diyarbakır, la “capitale” dei Curdi in Turchia.
Ed è proprio a partire dalla condivisione di questo concetto largo di comunità che deve essere letto ciò che oggi stanno tentando di fare i Curdi, circa 45 milioni di persone che vivono principalmente in Iran, Iraq, Siria, Turchia e, in numero minore, in Armenia.
Diversamente da altre esperienze, anche recenti, essi non rivendicano il diritto a costituire uno stato-nazione che riunifichi in un unico territorio l’intera popolazione.
Ritengono, infatti, lo stato nazionale una ‘gabbia’, poco democratica all’interno e utile solo per creare barriere e conflitti verso l’esterno.
La loro idea è quella del confederalismo democratico, capace di far convivere insieme le tante etnie presenti nel territorio, senza che nessuna debba rinunciare alle proprie caratteristiche e, naturalmente, senza che nessuna possa imporre le proprie scelte.
Un modello di autogestione che già oggi viene praticato nei territori e, in particolare, nel Rojava, nord est della Siria, di fatto una regione autonoma, sotto il controllo delle milizie curde (YPG, Unità di protezione popolare).
Allo stesso modo si tenta di gestire l’organizzazione economica in modo che non risponda unicamente alla logica del profitto, ma sia coerente con quella che viene definita l’ecologia sociale.
Produzione e scambi vengono, infatti, articolati in base ai bisogni e alle necessità individuati dalle assemblee di base.
Per esempio nei supermercati gestiti dalle cooperative (Ezel ha tenuto a sottolineare che non hanno nulla a che vedere con il nostro modello) ogni famiglia riceve prodotti tenendo conto del numero dei componenti.
Un progetto ambizioso e radicale che deve fare i conti non solo con i governi della regione, ma anche con il terrorismo del Daesh-Isis, particolarmente attivo nella zona.
Paolo Andolina, partigiano siciliano del YPG, presente all’incontro, raccontando la sua esperienza ha contribuito a chiarire meglio la situazione.
Non ha parlato, ovviamente, di scontri e battaglie, né di tattiche militari. L’YPG, infatti, non è un ‘esercito’ che deve conquistare nuovi territori, ma un’unità di protezione (multietnica) legata allo sviluppo del confederalismo democratico.
Oggi è l’YPG che sta liberando Raqqa (la roccaforte dell’Isis in Siria), ma non per sostituirsi al cosiddetto stato islamico.
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