Cresce sul web il numero di annunci di intermediari italiani che offrono, a pazienti positivi al virus dell’Epatite C, che non possono curarsi in Italia, l’organizzazione del viaggio e l’accesso alle cure in paesi come India, Pakistan, Egitto.
Se ne è discusso in un convegno promosso a Catania dalla LILA (Lega Italiana per la Lotta contro l’AIDS) sul tema: “L’importanza dell’advocacy e il paradigma dell’Epatite C”, svoltosi lo scorso 15 dicembre nei locali del Teatro Machiavelli.
Licia La Rocca (infettivologa, ospedale Ferrarotto) ha ricordato che l’Italia è il paese europeo con il maggior numero di persone positive al virus dell’Epatite C (HCV) e con più morti per tumore primitivo al fegato. Si stima, infatti, che il 3% degli italiani sia entrato in contatto con l’Hcv e che i portatori cronici del virus siano circa 1,6 milioni, di cui 330 mila con cirrosi epatica.
Dal 2014 anche in Italia sono disponibili nuovi farmaci grazie ai quali la durata della terapia si riduce a 3-6 mesi, contro i 9-12 degli attuali trattamenti e, soprattutto, con un’efficacia nella eliminazione del virus fino al 97% dei casi. Tutto bene dunque? si procede speditamente verso l’eradicazione di questa malattia?
Purtroppo nel nostro paese, a causa dei costi proibitivi di tali farmaci, la terapia non è disponibile per tutti. I medici accreditati devono inserire i dati delle persone in un database nazionale che procede a una sorta di classifica rispetto all’urgenza del trattamento. Graduatoria verificabile a livello nazionale e, in Sicilia, anche regionale.
Chi è in condizioni più avanzate di malattia verrà quindi curato per primo. E ciò nonostante nell’articolo 34 della nostra Costituzione si possa leggere: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”.
Non solo. Una tale situazione modifica, in negativo, il rapporto medico-paziente. Quest’ultimo, infatti, sarà convinto del fatto che solo problemi burocratici e una legge ingiusta impediscono il suo diritto alla cura. Mentre, se non ci fosse un tale divieto, il paziente potrebbe accettare, in accordo con il medico, un differimento della cura deciso per garantire al meglio un’evoluzione positiva della stessa, visto che, talvolta, è più utile spostarne in avanti l’inizio.
Su come estendere il diritto alla cura, e su ciò che possono fare organizzazioni sociali e singoli cittadini, è intervenuto Nino De Cristofaro (insegnante). Secondo il relatore, va innanzitutto rivendicata la specificità delle organizzazioni del volontariato e vanno sottolineate le differenze con le cosiddette organizzazioni del privato sociale.
Le prime dovrebbero proporre progetti pilota di cui, una volta verificata l’utilità, dovrebbe poi farsi carico il pubblico, garantendo un servizio più efficiente e con costi più bassi per la comunità. Al contrario, proseguire secondo il cosiddetto principio di sussidiarietà è un modo per dare vita a carrozzoni, spesso inutili, e per disincentivare l’intervento pubblico.
Per modificare la situazione è, perciò, decisiva la pressione dell’opinione pubblica. Purché l’advocacy non si trasformi in pressione lobbistica, sia svolta da soggetti che non “guadagnano nulla” da tale attività e non siano portatori di specifici interessi economici.
Luciano Nigro (presidente LILA, Università di Catania) ha dimostrato come l’altissimo costo delle cura (fino a 80.000 euro per trattamento) sia tutto a vantaggio della ditta che la produce (Gilead in particolare) che, a fronte di ridicoli investimenti nella ricerca e utilizzando anche contributi pubblici, ha massimizzato i profitti.
E ciò nonostante la stessa OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) dica esplicitamente che nei casi di emergenze sanitarie pubbliche è possibile un intervento diretto dello stato per garantire a tutti l’accesso alle cure, venendo meno il diritto al massimo profitto per le aziende.
Inoltre, l’aver incentivato il “turismo sanitario” mette ulteriormente in difficoltà i pazienti che usano farmaci non testati, quasi sempre da soli”, visto che un medico italiano non può seguire pazienti che si auto-sottopongono a terapie farmacologiche di cui con certezza non si conoscono le caratteristiche e le eventuali controindicazioni.
In sostanza, ha concluso Nigro, occorre chiedere con urgenza un intervento del governo per rinegoziare il costo dei farmaci, permettendo a tutti l’accesso alla cura. Questo determinerebbe, anche, in tempi non eccessivamente lunghi, un miglioramento della qualità della vita
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