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Per Nino Leonardi

Del monastero dei Benedettini conosceva e amava ogni pietra. Era stato l’anima del restauro e aveva personalmente disegnato alcuni ambienti e arredi.
Davanti a questo edificio da lui così amato si è svolto il funerale laico per commemorarlo e la compagna degli ultimi 30 anni, Emma Baeri, ha espresso la speranza che possa essergli intitolata la ‘sua’ “sala rossa”.
Lo ha detto nel suo intervento, un discorso intenso, commosso, che oggi pubblichiamo ringraziandola di questa pagina che evoca momenti personali ma ricorda anche quello che Nino ha fatto per la città.
Sorridere è necessario parlando di Nino, scherzare se possibile. Difficile è perdere il migliore amico, il mio migliore amico, dopo 32 anni di bellezza, in tutti i sensi.
Perderlo in tre ore, forse un suo ultimo scherzo per sottrarsi all’inarrestabile degrado della vecchiaia, che temeva, e della morte: “sotto certi aspetti l’idea di dover morire mi da un po’ fastidio” – mi disse tanti anni fa di fronte all’azzurro abbagliante del mare di Acitrezza, un pensiero misurato, mite, davanti all’infinito del mare e della morte ( risi, ridemmo molto, ricordo, per questo ossimoro).
Amava la vita ingordamente, la gustava, l’assaporava minuto per minuto…ogni tanto la rifiutava, come per aver troppo mangiato, e si chiudeva in un suo burbero luogo solitario, inaccessibile…ma bastava un abbraccio per riportarlo in vita. Era la persona più giovane che conoscessi, un adolescente di ritorno, era il mio compagno di giochi, che pensavo fosse eterno.
Debbo farmi una ragione della sua troppo rapida e violenta scomparsa…un incidente sul lavoro – ho pensato – è caduto da un’impalcatura, lui che amava definirsi muratore; l’impalcatura alta che era la sua vita, sulla quale si arrampicava pensando sempre un nuovo piano, un desiderio, un progetto, una ricerca: era un muratore colto, un geometra geniale, un architetto imprevisto, “un servitore dello Stato” all’antica, una persona perbene, orgoglioso e fragile per questa sua complicata “professione”.
Era un uomo generoso oltre ogni limite, non solo perché era buono, ma perché aveva una concezione non proprietaria della cultura; una cultura la sua in cui forte e inscindibile era il nesso tra esperienza, competenza e conoscenza, un antiaccademismo radicale, la consapevolezza che tramandare è più fecondo e civile che trattenere.
Per questo le ragazze e i ragazzi delle Officine Culturali lo adoravano, un’adorazione che lui ricambiava, uno scambio vitale, nutriente, fatto di intuizioni subito condivise, di proposte, di verifiche, di litigi anche, e dell’immancabile torta che ogni domenica consegnava loro “a domicilio” per la colazione della festa…giochi di parole e risate sempre.
Il Monastero dei Benedettini è stato la sua grande passione, lo spazio-luogo di una dedizione assoluta. Per questo è necessario che quelle pietre portino tracce indelebili di questa sua straordinaria esperienza, per questo la “Sala rossa” del cantinato benedettino, da lui immaginata, progettata, disegnata, curata, deve essergli intitolata. Quel suo disegno, potente e leggiadro insieme, entra in risonanza con chi guarda, che comincia il gioco delle analogie….barche, fiori, altro?…stupore e gioia…e la lava sotto riverbera il rosso…natura e cultura amiche…
Catania mi sembra più povera senza la sua intelligenza acuta, la sua ironia, la sua allegria, la sua sicilianitudine disincantata, il suo dialetto antico… vorrò inventarmi una solitudine piena, femminista, ancora vedendo il suo sorriso ammiccante, ancora sentendo la sua voce sorniona: “C’ha fari a st’età, unni vai iennu? Lassali peddiri sti fimminazzi, vidi ca ti pottanu a mala strata. Ascuta a mia ca sugnu cchiu ranni!”…Ovviamente su questo non lo ascolterò. Per il resto il dialogo continua…
Emma

Argo

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