Non un paio di appuntamenti davanti alle telecamere, magari per farsi un poco di pubblicità, ma sette anni di confronto doloroso e difficile tra i responsabili della lotta armata degli anni settanta e i parenti delle vittime.
Di questo lungo e faticoso percorso, vissuto lontano dai riflettori mediatici e raccontato di recente ne “Il libro dell’incontro” edito da Il Saggiatore, si è parlato qualche giorno addietro nell’anfiteatro di Villa San Saverio.
Su invito della Scuola Superiore di Catania e dei gruppi Rotary dell’area etnea sono intervenuti Agnese Moro e Adriana Faranda, insieme al gesuita Guido Bertagna, uno dei tre ‘mediatori’ che, insieme al criminologo Adolfo Ceretti e alla giurista Claudia Mazzucato, hanno sollecitato e favorito questo dialogo improbabile, divenendone insieme parte integrante e ‘testimoni’.
Non è stato facile, anche per il pubblico, entrare nella logica di questo confronto complicato, condotto sul modello della giustizia riparativa che prevede il coinvolgimento della vittima, di chi ha commesso l’azione violenta e di tutta la comunità.
Una modalità sperimentata anche in Sud Africa all’interno della Commissione verità e riconciliazione, presieduta da Desmund Tutu, nel periodo successivo all’apartheid.
Lo stesso moderatore Piero Maenza, ha iniziato subito con una gaffe chiedendo ad Adriana Faranda se fosse stata contraria all’assassinio di Aldo Moro e consapevole della crisi a cui andavano incontro le Brigate Rosse, di cui era militante.
Tempestivo l’intervento di Agnese Moro che ha intercettato il microfono e chiarito che non si era lì per rispondere a domande scontate e “morbose” ma per parlare di una giustizia diversa che non coincide con l’imporre o subire una pena da scontare ma si può basare solo sul recupero della relazione.
“Pagata la pena” si è infatti liberi, ma non per questo sono finite le responsabilità. E se 15 anni di carcere stravolgono la vita, come ha detto Faranda, rimane aperto il nodo più difficile, quello di perdonare se stessi. E trovare il senso di tanto dolore procurato e subito.
Ricomporre una frattura tuttora dolorosa è necessario anche per chi ha subito una perdita irreparabile.
Ecco perchè, come ha raccontato Agnese Moro, “dopo un iniziale rifiuto, ho accettato la proposta di partecipare a questa esperienza di dialogo: l’ho fatto per me, per smettere la pelle della vittima”.
Le ‘ferite inguaribili‘ sono infatti presenti sia negli autori della violenza sia nelle vittime di quegli anni, che sentono la necessità di “andare oltre l’incubo dei mostri e ritrovare le persone”.
Nel dialogo emerge la valenza curativa dell’ascolto, andando oltre la tentazione auto-assolutoria da una parte e quella di avere tutto chiaro e di poter giudicare dall’altra.
Sul ruolo svolto dai mediatori, Bertagna ha definito “le nostre orecchie” come il terreno d’incontro di punti di vista opposti. “E questo ci ha consentito l’equidistanza, anzi meglio, l’equiprossimità“.
In questi sette anni in cui una decina di persone, disponibili all’incontro, si sono parlate, hanno mangiato insieme e dormito sotto lo stesso tetto, hanno camminato e viaggiato, lavato i piatti e pulito i pavimenti, sono nate amicizie incredibili.
Non perchè ci sia stato un passaggio immediato da nemico ad amico, ma perchè nonostante gli scontri, i passi indietro, le tensioni e le difficoltà, non è venuta a mancare la tenacia e la fiducia reciproca.
Questo libro, come leggiamo nel prologo, non è la storia di un successo, non presenta nessun traguardo raggiunto. Racconta un cammino in cui si tenta di sciogliere nodi irrisolti, non solo delle persone direttamente coinvolte, ma di tutta una nazione che ancora si interroga e cerca di capire il senso di quegli anni terribili.