Non ci stanno Gerlando e Dario Montana, fratelli di Beppe, ucciso dalla mafia nel Palermitano, a Santa Flavia nel 1985. Assistiti dall’avvocato Goffredo D’Antona, hanno presentato ricorso contro la sentenza con la quale il Giudice per le indagini preliminari ha disposto il non luogo a procedere nei confronti di Mario Ciancio per il reato di concorso (esterno) in associazione mafiosa.
I due (cui a suo tempo La Sicilia negò di pubblicare il necrologio per la morte del fratello) contestano, innanzitutto, il fatto che la sentenza appaia come una sentenza di merito mentre, al contrario, “Il Gup deve valutare, sotto il solo profilo processuale, se gli elementi probatori acquisiti risultino insufficienti, contraddittori o comunque inidonei a sostenere l’accusa in giudizio, esprimendo un giudizio prognostico circa l’inutilità del dibattimento, senza poter effettuare una complessa ed approfondita disamina del merito.” (Cass. pen. sez. II 05/11/2015 n. 46145).
In questo caso, secondo i ricorrenti, ci si trova di fronte a una palese contraddittorietà nella sentenza.
La giudice, infatti, nonostante ritenga necessario un approfondimento delle indagini, invece di intervenire, ai sensi dell’art. 421-bis, per disporre ulteriori ricerche, adotta un provvedimento di non luogo a procedere. In sostanza, “Non si può ammettere una visione non chiara degli atti, non fare nulla per sanarla e poi affermare l’inidoneità degli stessi a sostenere l’accusa in giudizio”.
Emblematica poi è la ‘giustificazione’ che il Gup dà rispetto alla mancata pubblicazione del necrologio richiesto dalla famiglia Montana, accettando la tesi difensiva, secondo cui il rifiuto sarebbe stato determinato dal fatto che “non è nella prassi di questo giornale consentire che attraverso le necrologie si esprimessero giudizi di qualsiasi genere”.
A quali giudizi ci si riferisca è difficile da comprendere visto il testo: “La famiglia con rabbioso rimpianto ricorda alla collettività il sacrificio di Beppe Montana, commissario Pubblica Sicurezza, rinnovando ogni disprezzo alla mafia e suoi anonimi sostenitori”.
Sulla non coerenza di tale linea editoriale, inoltre, sarebbe bastato fare riferimento ai necrologi in memoria di Pippo Ercolano, uomo decisamente noto alle cronache giudiziarie, regolarmente pubblicati sul giornale etneo.
Né il Gup ha ritenuto utile soffermarsi sui tanti episodi che – come sottolineano i ricorrenti – si ripetono tra Mario Ciancio e l’organizzazione e l’uso del giornale al servizio della mafia.
Come quando il collaboratore di giustizia Angelo Siino ricorda di avere accompagnato presso la redazione del quotidiano La Sicilia Giuseppe Ercolano, infuriato a seguito di un articolo di Concetto Mannisi nel quale veniva definito “boss mafioso”.
In presenza dell’Ercolano, del capo cronista Vittorio Consoli e dell’autore del pezzo, il direttore Ciancio contestava al giornalista il tono non imparziale del suo articolo invitandolo a non attribuire mai più l’appellativo di boss mafioso all’Ercolano ed agli altri componenti della famiglia, “neanche se te lo dovessero dire i carabinieri”.
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Né il Gup si sofferma sulla pubblicazione, con grande evidenza e senza alcuna censura, della lettera a La Sicilia di Vincenzo Santapaola (figlio di Benedetto detto Nitto) detenuto in regime di 41 bis, del 09.10.08.
Così come non c’è alcun riferimento al depistaggio sull’omicidio Fava. A tale proposito la Direzione Distrettuale Antimafia di Catania denuncerà che vi erano state notizie “irresponsabilmente diffuse nell’ambito di una studiata strategia diretta a delegittimare il pentitismo”.
Anche il furto nell’abitazione del Ciancio costituisce un ulteriore episodio, rispetto al quale il Gup omette qualsivoglia accenno e nonostante l’autore del furto, Giuseppe Catalano, avesse confessato che, effettuato il furto, gli esponenti di vertice del clan Santapaola gli avevano richiesto di restituire i beni perché il soggetto (Ciancio) non doveva essere toccato.
Quanto infine alla affermazione del Gup di non doversi procedere nei confronti di Mario Ciancio Sanfilippo in ordine all’imputazione ad esso ascritta “perché il fatto non è previsto dalla legge come reato”, questo, di per sé configurerebbe – secondo i ricorrenti – a carico della sentenza del Gup, il vizio dell’inosservanza della legge penale in relazione agli artt. 110 e 416 bis, che prevedono espressamente il concorso nel reato ed il reato di associazione mafiosa.
Né vale – osservano i ricorrenti – a fondamento di tale conclusione del Gup, la decisione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, pronunciatasi nella causa Contrada contro Italia.
La sentenza non avrebbe riguardato l’ammissibilità di tale figura di reato, ma piuttosto l’applicazione retroattiva (tassativamente vietata in ambito penale) che ne sarebbe stata data dalla Magistratura italiana.
La condanna di Contrada avrebbero riguardato comportamenti ed attività dello stesso anteriori alla definizione, da parte della giurisprudenza, del reato di concorso esterno in associazione mafiosa.
All’obiezione del Gup che non si ravviserebbero nella condotta del Ciancio comportamenti, in concorso con le associazioni mafiose, finalizzati alla realizzazione di specifici reati, cosiddetti “reati – fine”, i ricorrenti replicano che il concorso esterno è riferito “ad una fattispecie (quella di associazione mafiosa) che si connota quale reato di pericolo, esistendo, cioè, per ciò solo, indipendentemente dal compimento di altri reati scopo da parte degli associati”.
“La volontà del concorrente esterno può restare del tutto estranea alla commissione dei reati fine, che non si pongono, peraltro, come necessari neanche ai fini del configurarsi del reato di associazione mafiosa”. È, infatti, l’esistenza stessa dell’associazione – come pure del concorso con essa – a ledere il bene giuridico dell’ordine pubblico.
Leggi il testo integrale del ricorso presentato dai fratelli Montana
Leggi la sentenza di non luogo non a procedere emessa dal Gup