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Come è difficile il diritto alla cura

35 milioni di persone con HIV nel mondo, 140.000 circa in Italia. 200 milioni di persone con epatite C, 2 milioni circa in Italia. Ricordando questi dati l’infettivologo Luciano Nigro ha introdotto, lunedì 7 dicembre, il dibattito sul diritto alla cura, promosso dalla L.I.L.A. (Lega Italiana per la Lotta contro l’Aids) di Catania.
I dati sull’AIDS ci dicono, da un lato, che, nel nostro Paese, l’incidenza di questa malattia è molto bassa (circa 0,006%), dall’altro, che occorre indirizzare gli sforzi verso quelle persone che non sono consapevoli dello loro sieropositività, visto che su tre nuovi contagi due sono causati proprio da tali soggetti.
Per questi motivi, la LILA ha promosso il Test (salivare) rapido per l’HIV, che in circa 20 minuti, e in una situazione di anonimato, permette di conoscere la propria condizione. Test che, a partire dai prossimi mesi, grazie a un contributo della Chiesa Valdese, verrà riproposto con continuità.
L’epatite C, ha sottolineato Nigro, rappresenta la nona causa di decessi in Italia. Oggi, però, sono stati prodotti farmaci, molto costosi, in grado di garantire, pur in presenza di effetti collaterali, la guarigione a oltre l’ottanta per cento dei pazienti (contro il precedente 40% delle vecchie terapie).
Purtroppo il Ministero della salute non è ancora in grado di garantire a tutti i soggetti affetti le terapie ed ha stilato una gradualità di accesso in base alla gravità dell’infezione, non permettendo ai soggetti giovani e asintomatici il trattamento nell’immediato.
Occorre, perciò, lavorare in due direzioni: abbassare i costi dei farmaci e semplificare l’accesso alla cura.
Nel suo la dottoressa Maria Grazia Messina ha ripercorso le tappe fondamentali del progetto “Solidarietà senza frontiere”, co-finanziato attraverso l’otto per mille dalla Chiesa Valdese.
Obiettivo centrale, far sapere agli stranieri extracomunitari (regolari e non) presenti nel nostro territorio  che a tutti loro è garantito il diritto alle cure essenziali, grazie, anche, al rilascio di uno specifico tesserino sanitario (STP, straniero temporaneamente presente).
Si è lavorato, grazie alla costante presenza di due mediatori culturali, uno del Senegal e una della Nigeria, soprattutto con queste comunità, ma l’informazione è stata diffusa a livello cittadino, in sinergia con le strutture pubbliche (in primo luogo Casa dei Popoli) e con gli SPRAR (sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) gestiti dalla cooperativa Il Nodo.
Molte, ancora, le barriere da superare (culturali, legislative, economiche), per un ottimale accesso alle cure, certo è che bisogna porre la massima attenzione nel momento dell’arrivo, quando le difficoltà del viaggio (fisiche e mentali) rendono particolarmente fragili queste persone.
L’avv. Stefano Troni ha affrontato il tema dell’uso terapeutico della cannabis, una sostanza da sempre usata anche all’interno della medicina ufficiale, proibita, in quanto dichiarata stupefacente, nel 1937 negli  USA.
Oggi, la ricerca riconosce che in molti casi (anoressia, dolore, asma, glaucoma, variazione di umore, terapie palliative) la cannabis rappresenta un ulteriore efficace rimedio e ciò ha fatto sì che, seppure con difficoltà e lentezza, se ne accetti l’uso medico.

Purtroppo, in Italia, per esempio rispetto agli USA,  tale uso è riconosciuto in un numero ridotto di patologie e, soprattutto, c’è una legislazione disomogenea a livello nazionale (solo una parte delle regioni ha legiferato in tal senso).
Lo stesso organismo statale sulla cannabis, appena costituito, non ne riconosce pienamente l’uso terapeutico. Occorre, quindi, una battaglia, culturale e politica, per garantire l’accesso a queste cure.
La dottoressa  Maria Rosaria Maugeri dell’Università di Catania ha sottolineato come la nostra Costituzione garantisca, al contempo, il diritto alla cura e all’autodeterminazione, “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”.
Come, peraltro, ribadito nel 2014 dal Consiglio di Stato, secondo cui il diritto alla autodeterminazione terapeutica “può e deve, se lo richiede la sua soddisfazione, trovare adeguata collocazione e necessaria attuazione all’interno del Servizio Sanitario. […] solo la diretta responsabilizzazione dell’organizzazione sanitaria consente di non vedere sacrificato, nell’eventuale conflitto tra medico e paziente, il diritto fondamentale di quest’ultimo”.
In quest’ottica, da un lato, ogni cura deve essere personalizzata, dando vita a una necessaria “alleanza terapeutica” fra medico e paziente; dall’altro,  si deve mettere in atto un processo dialettico e dinamico, che, grazie al consenso informato, tenga nel dovuto conto le scelte del paziente.
In sostanza, la cura non può essere ciò che si impone, ma deve rappresentare un flessibile e ragionato (“accompagnare”) percorso terapeutico.
Percorso reso oggi difficile e complicato in quanto la libertà del medico di personalizzare la cura (“alleanza terapeutica”) è significativamente ridotta nel momento in cui solo chi rispetta le linee guida è al riparo da eventuali richieste di risarcimento. La lotta alla “malasanità” dovrebbe andare in tutt’altra direzione.

Argo

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