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Beni comuni, un regolamento tutto da scrivere

Definire un bene comune è un po’ come ingabbiarlo, anche perchè il ‘bene’ di cui parliamo non è una ‘cosa’ o un luogo, ma un fatto, una pratica messa in atto da un movimento”.
Esordisce così Giso Amendola, docente dell’Università di Salerno, prendendo la parola all’assemblea su Beni Comuni organizzata ieri nella Palestra Lupo e iniziata con quasi due ore di ritardo sull’orario previsto.
Siamo in un luogo simbolo, all’interno di un ‘bene’ sottratto al degrado e autogestito da gruppi di cittadini, ma il taglio del discorso si mantiene astratto, ideologico e tocca soprattutto il concetto di proprietà. Per Amendola non basta riconoscere che “una parte del mondo non è appropriabile”, il marcio della proprietà privata coinvolge anche lo Stato che questo marcio spesso favorisce, e quindi anche la proprietà pubblica.
Il movimento per i beni comuni, con la battaglia e la vittoria del referendum sull’acqua, ha dimostrato -a suo parere- una maturità politica non inferiore a quella degli indignados spagnoli, producendo un modello di gestione partecipata, e realmente democratica, della città. A maggior ragione è necessario interrogarsi sull’impasse in cui è successivamente caduto.
Luca Nivarra, dell’Università di Palermo, riepiloga pregi, limiti e contraddizioni della Commissione incaricata della riforma delle norme sui beni pubblici, presieduta da Stefano Rodotà con Ugo Mattei vicepresidente, e della quale è stato membro.
“Una storia chiusa, quella della commissione, non solo dal punto di vista cronologico ma anche culturale”, dichiara, pur riconoscendo alcuni aspetti innovativi nella proposta conclusiva da essa avanzata. In particolare la nascita della categoria di ‘bene comune’ e il superamento della polarità tra ‘patrimonio disponibile e indisponibile’.
Troppo poco per chi, come Nivarra, dimostra fastidio per i “dispositivi giuridici” che non provengono dal basso, persino per i regolamenti relativi ai beni comuni ormai realizzati in diverse città italiane.
Solo alcuni di essi, giudicati ‘avanzati’ come quello di Bologna, Siena, Terni e soprattutto di Chieri, in provincia di Torino, hanno prodotto un rinnovamento, anche sul piano del linguaggio.
Gli altri vengono liquidati come “un modo burocratico di affrontare la questione dei beni comuni”, con il rischio di arrivare alla cooptazione dei movimenti all’interno della “governance tradizionale”. Come dire che gli amministratori riconoscono che da soli non ce la fanno e chiedono aiuto alla cittadinanza attiva perchè si faccia carico della gestione dei beni pubblici. “Nulla di nuovo, niente altro che una applicazione del principio di sussidiarietà” conclude Nivarra.
I regolamenti devono invece partire dal basso, sostengono i relatori, e la loro stesura viene definita da Amendola un campo di battaglia. I termini battaglia, conflitto, scontro ricorrono del resto più volte, quasi necessari per sperimentare forme nuove di autentica democrazia.
E, se -dichiara Nivarra- per far cadere nel nulla la proposta della Commissione Rodotà è stato sufficiente dimenticarla in un cassetto, per mettere a tacere il movimento quando esso ha prodotto le occupazioni è stata necessaria la polizia.
Con le occupazioni non ci sono più beni comuni precostituiti, quelli che la Commissione Rodotà aveva classificato (anche se in modo non tassativo e quindi modificabile) individuando “cose” di particolare valore che devono essere difese e rese accessibili a tutti. Ci sono solo spazi, luoghi che diventano “comuni” perchè sottratti al degrado o una futura commercializzazione.
Possono essere beni di proprietà pubblica, come il teatro Valle, o privata, come il colorificio di Pisa. Neanche ai primi viene riconosciuta una funzione sociale perchè questo comporterebbe un riconoscimento della “proprietà”.
Le occupazioni, infatti -afferma Nivarra- non sono compatibili con il “quadro sistemico”, mettono in discussione il “paradigma proprietario” e lo scardinano.
Allo stato, considerato quasi un nemico, bisogna sottrarre non solo luoghi e spazi ma anche funzioni, sostiene Amendola, secondo il modello di “welfare dal basso”. Avviene già negli “ambulatori sociali” e in altre iniziative gestite da gruppi non convenzionali, da soggettività nuove.
Pratiche concrete, senza dubbio, ma senza alcuna lucida ammissione della loro vocazione minoritaria che ben poco può soddisfare delle necessità dei più.

Dall’assemblea di ieri non sono emerse indicazioni concrete su come procedere per la realizzazione di un regolamento dei beni comuni, sebbene la moderatrice, Luisa Santangelo di Meridionews, abbia chiesto espressamente quali strade una comunità debba seguire per arrivare a questo traguardo.
Si preferisce rimanere sul piano delle affermazioni di principio sebbene ci si rivolga ad un uditorio di una quarantina di persone, selezionato e già convinto.
E’ un sabato di luglio, chi può è andato al mare e -come dice Mirko Viola di CittàInsieme al momento del dibattito- la maggior parte dei catanesi nulla sanno e forse nulla vogliono sapere dei bene comuni, abituati come sono a cercare vantaggi personali e immediati, “a tendere la mano piuttosto che a puntare il dito”.
Lo dimostra anche, ribadisce Mirko, il mancato utilizzo di strumenti già esistenti di partecipazione come quelli previsti dallo statuto del Comune, referendum abrogativo compreso.
Neanche tra coloro che partecipano e si impegnano c’è accordo su un “senso comune” delle parole che vengono utilizzate. Lo riconosce Matteo Iannitti, di Catania Bene Comune, per il quale la stesura di un regolamento per i beni comuni potrebbe essere proprio lo strumento per costruire insieme questo “senso”, sedendosi attorno a un tavolo e confrontandosi per superare le divisioni che segnano la componente attiva della cittadinanza.
In conclusione sono stati previsti futuri appuntamenti per discuterne. Ci auguriamo che si tratti di appuntamenti fruttuosi in cui si parli non dei massimi sistemi ma di situazioni e proposte concrete. E in cui, rispettando la puntualità, si dimostri anche concretamente il rispetto per le persone.

Argo

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  • Mi complimento con chi è riuscito a riassumenre con chiarezza i fumosi vaneggiamenti dei due relatori che utilizzavano un linguaggio accademico gratuitamente complesso per esprimenre molte banalità ed alcune idee al tempo stesso farneticanti, vecchie e superate da almeno 40 anni.
    Il convegno era fissato alle 9,30 ed iI relatori sono arrivati alle 11 senza che nessuno ne spiegasse i motivi, mostrando così di non prendersi cura del pubblico che attendeva in sala.
    Una grande incoerenza: il più prezioso dei beni comuni è, al fondo, il tempo, la vita che ci è dato di vivere. Non si può far sprecare tempo in attesa alle persone che hanno avuto l'ingenuità di avere fiducia negli organizzatori.
    Sarà assai difficile convincermi a partecipare allle prossime iniziative organizzate presso la palesta Lupo.

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