Così, Attilio Scuderi (università di Catania), a conclusione del dibattito su: “Riforma della scuola e controriforma dei saperi”, promosso dal CUDA (Coordinamento Unico dell’Ateneo), il 17 giugno in un’aula dei Benedettini, a Catania.
In apertura dei lavori, Nino De Cristofaro (docente del liceo Boggio Lera) aveva sottolineato la centralità della scuola nella vita del Paese (circa dieci milioni di ragazzi e adulti coinvolti ogni giorno) e denunciato come da oltre venti anni non si discuta in modo organico di contenuti e stili di apprendimento, mentre tutte le cosiddette ‘riforme’ sono servite solo a tagliare, senza nessuna motivazione didattica, materie e ore di studio, cioè a risparmiare.
Preceduto da Scuderi che aveva ricordato come l’Italia, nel cosiddetto mondo sviluppato, rimanga nelle ultime posizioni rispetto agli investimenti sulla cultura e come le recenti dichiarazioni dell’attuale premier sul DdL in discussione al Senato “nessuna assunzione dei precari, se non viene approvata la legge” siano frutto di un’idea della democrazia decisamente discutibile.
Così come è altrettanto irricevibile, secondo De Cristofaro, quanto si legge ne La Buona scuola “le risorse pubbliche non saranno mai sufficienti a colmare le esigenze di investimenti nella nostra scuola”. Un’affermazione in evidente contrasto con il dettato Costituzionale.
Un’affermaziome, secondo Teresa Garaffo (docente dell’Istituto Comprensivo Fontanarossa),coerente con il rifiuto del dialogo che ha contraddistinto il governo nella gestione dell’intero iter (sinora sviluppato) del DdL.
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Un progetto di legge che, per De Cristofaro, è pericoloso non solo per quanto esplicitamente scritto, ma anche per le deleghe in bianco grazie alle quali, entro 18 mesi, il governo potrà produrre più decreti legislativi modificando, senza nessun controllo né alcuna possibilità di discussione, dalla a alla z la scuola italiana.
Mani libere, dunque, per completare quel processo di aziendalizzazione, accompagnato da un’inutile e sciocca competitività tra il personale, perseguito negli ultimi venti anni, ben rappresentato, oggi, dalla figura del preside-podestà.
Per Garaffo, occorre, al contrario, fare in modo che gli insegnanti si confrontino e si sentano parte di una comunità educativa, capace di rispondere ai nuovi stili di apprendimento delle giovani generazioni, lavorando (in un clima cooperativo all’interno del quale è naturale socializzare e condividere le ‘buone pratiche’) su innovazione e sperimentazione.
Un tema, questo della centralità dei contenuti, sottolineato da Antonio Pioletti (università di Catania), anche in rapporto alla formazione dei futuri docenti.
Una formazione che deve essere in grado, nello stesso tempo, di fare ben assimilare i contenuti disciplinari e di fornire gli specifici strumenti didattico-operativi per svolgere, con competenza e capacità, il lavoro di insegnante, mettendo fine a quel circolo vizioso per cui in ogni ordine di scuola si recrimina su quanto non è stato fatto correttamente nel segmento immediatamente precedente.
In questa direzione, da un lato l’università deve interrogarsi sulla qualità del proprio lavoro, dall’altro vanno individuate le migliori modalità per garantire una formazione (retribuita e in servizio) dei neodocenti.
Sulla formazione dei futuri docenti si è soffermato Andrea Manganaro (università di Catania) denunciando innanzitutto come il modo in cui è stato realizzato il TFA (tirocinio formativo attivo) sia l’evidente testimonianza del disprezzo della politica verso la scuola.
Un corso di specializzazione che dovrebbe durare un anno si svolge in 3, 4 mesi; il tirocinio, che dovrebbe rappresentare un momento particolarmente qualificante, è ridotto al minimo indispensabile.
L’università è estranea alla selezione dei corsisti, che avviene con modalità simili a quelle dei quiz Invalsi nella scuola, che, per come sono strutturati, non permettono di valutare pensiero critico e capacità di rielaborazione personale.
Mentre, al contrario, ha ricordato Garaffo, occorrerebbe riflettere su cosa significa insegnare e apprendere, ragionare, in un’ottica di curricolo verticale, in particolare negli istituti comprensivi, interrogarsi sulla possibilità di individuare tempi più lenti e più rispettosi delle caratteristiche individuali e delle esigenze degli alunni.
Riaffermare, conseguentemente, il protagonismo dei docenti rispetto ai percorsi di formazione.
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