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Fasci siciliani, una poesia, una cronaca, un film

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“Anco una volta, a chi chiedeva pane/ si diè, nequizia, il piombo”, così scriveva Francesco Foti nella sua poesia “L’eccidio”, ricordando i contadini e braccianti che nel 1893 a Giardinello, in provincia di Palermo, erano stati massacrati solo perchè chiedevano pane, lavoro e dignità.
Un episodio di repressione violenta dei Fasci dei Lavoratori immortalato da un poeta dimenticato a cui Francesco Giuffrida, studioso del canto popolare spesso citato da Argo, dedica un breve saggio sull’ultimo numero della rivista Incontri.
A leggere in pubblico i versi de “L’eccidio” è stata l’attrice Alessandra Costanzo, a conclusione della proiezione di “1893. L’inchiesta”, avvenuta l’undici maggio al cinema King.
Nè film, nè documentario, il lungometraggio avrebbe l’ambizione di ricostruire la protesta che, tra il 1891 e 1894, scosse l’opinione pubblica  italiana ed europea con le sue rivendicazioni di giustizia sociale. La regista, Nella Condorelli, non è tuttavia riuscita nel suo intento, essendosi limitata a trasportare, sic et simpliciter, sul grande schermo l’indagine giornalistica realizzata da Adolfo Rossi, redattore viaggiante, del quotidiano romano La tribuna.
Invitabilmente sono stati quindi trascurati molti altri aspetti, e molte altre fonti, del complesso fenomeno dei Fasci.
Innegabile, comunque, il merito di aver riportato alla ribalta il nome dimenticato di Francesco Foti. Giuffrida lo definisce un poeta ‘schierato’, che ha fatto propri gli ideali di riscatto dei ceti popolari e che ha dato voce alla lotta degli operai, degli zolfatari, degli artigiani, dei contadini, dei braccianti, delle donne, uniti nei Fasci dei Lavoratori.
I riferimenti contenuti nel testo del componimento L’eccidio (“insulti dal balcone” e “fucilate in coro”) sono, a parere di Giuffrida, abbastanza precisi.

Anco una volta d’un conflitto immane
bieco s’udì il rimbombo;
anco una volta, a chi chiedeva pane,
si diè, nequizia, il piombo.
O dissanguato e macero villano
avvinto a ‘l giogo infame,
che soffri ognor, sebben robusto e sano,
lo strazio della fame;
perché chiedevi a’ pingui tuoi padroni
il dritto de ’l Lavoro,
ti risposer gli insulti dai balconi,
le fucilate in coro.
E ben ti sta… l’inclìta borghesia,
ebbra di amore e vino,
non vuole udir da te, vile genìa
latrati da mastino.
Tu non dovevi, schiamazzando in piazza,
con parole profane
turbar la santa gioja a chi gavazza
sulle miserie umane.
Tu lo sapevi… i fertili tuoi campi
crescono il fien novello:
questo è il tuo cibo, e se di sete avvampi,
c’è l’onda del ruscello.
E l’eccidio seguì… le ricche sale
risonavan di canti,
mentre si celebrava un funerale
con interrotti pianti.
Là minacciavan le masnade ladre
con irrompente piglio,
mentre una madre, una dolente madre,
morto abbracciava il figlio.
E a tanto scempio, Civiltà latina,
tieni in croce le braccia?
O svergognata e lurida sgualdrina,
vieni, ti sputo in faccia.
.

Convergono infatti con quello che Salvatore Francesco Romano, nella sua “Storia dei Fasci siciliani”, racconta sui fatti di Giardiniello. Ritroviamo citati gli insulti e la derisione della moglie del sindaco nei confronti dei manifestanti “con secchiate di acqua fresca per rinfrescare le teste di questi cornuti” e poi le fucilate provenienti dalla casa del primo cittadino e da quella del nipote, capo delle guardie campestri, che avevano dato il via alla carneficina.
Di questo poeta, convinto sostenitore di una ‘fede’, Giuffrida ricorda anche altri scritti, in particolare il “Cantu di ‘nu riclusu”, ‘Canzuna populari’ diffusa su un volantino messo in vendita per pochi spiccioli e sequestrata dalla Questura di Catania nel 1895, vale a dire l’anno successivo alla repressione dei Fasci.
Ad una carcerazione dovuta ad ideali politici e non a reati comuni alluderebbe, a parere di Giuffrida, l’uso del termine ‘martire’ e l’invito a portare un fiore sulla tomba di chi ha dato la sua vita per una fede, per gli altri.
Foti non scrive però solo testi di militanza politica, è anche un poeta capace di cantare la sua terra, l’amore, la natura alternando l’uso del siciliano con quello dell’italiano, adoperati “con uguale capacità espressiva e pienezza di sentimenti”.
Le sue composizioni, nella forma del sonetto, dell’ottava siciliana, della canzonetta, furono pubblicate in diversi periodici catanesi, ma il poeta non ebbe mai gloria e ricchezza.
Soprattutto non ebbe il favore dei critici che lo ignorano e lo esclusero dalle, contemporanee e successive, raccolte antologiche.
Fu recuperato alla fine degli anni settanta da Salvatore Camilleri che lo inserì nelle pagine finali de “La rinascita della poesia siciliana” e ne trascrisse poi “poesie, canzoni e favole” creando un archivio che è oggi a disposizione degli studiosi.
Sul silenzio calato su questo autore Giuffrida azzarda anche un’ipotesi, che si sia voluto fare cadere nell’oblio un poeta scomodo, impegnato a favore dei deboli, degli esclusi, dei ribelli. E ribelle anche lui.

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