L’occasione dell’incontro, organizzato dalla associazione culturale ‘Photo Graphia’ presso l’Aula Magna del Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali di Catania, è stata fornita dalla pubblicazione del libro fotografico di Gentile, “La guerra. Una storia siciliana”, che si avvale anche di un racconto di Davide Enia sulla propria infanzia a Palermo negli anni delle stragi.
Sulla fotografia come mezzo di documentazione dei fatti ha ragionato Giovanbattista Tona, magistrato a Caltanissetta. Strumento di comunicazione e di racconto, la fotografia può, a suo avviso, “veicolare il virus dell’inautenticità”, non parla infatti da sola, ma ha bisogno di essere contestualizzata e interpretata. Giuseppe Strazzulla, coordinatore provinciale di Libera, ha parlato, infine, dell’uso della fotografia come contributo alla ricostruzione della Memoria collettiva.
A questo proposito, ha sottolineato come la Storia si faccia Memoria quando è capace di incidere nel tessuto vitale della società che la produce.
L’uso della fotografia nella sua funzione documentale la rende, di fatto, più vicina all’Antropologia culturale (analizza infatti il comportamento delle popolazioni attraverso l’osservazione sul campo) che alla Storia, per la quale rischia di restare un documento ambiguo. .
Le fotografie, nella loro crudezza, ricostruiscono un contesto in modo incompleto perché, per la stessa natura del mezzo, escludono un orizzonte che è proprio della parola come, nel caso di questo libro, è documentato proprio dal racconto di Davide Enia (“…era normale imbattersi nei cadaveri riversi sull’asfalto”).
Del resto, la “rappresentazione” mafiosa (e qualche volta anche quella anti mafiosa…) contiene già in sé i caratteri dell’iconografia densa di segni; per questo è così difficile rappresentarla per immagini: basti pensare alla teatralità di Michele Greco visto in Tv al maxiprocesso di Palermo, o ai film apologetici del cinema americano, da “Il Padrino” ai film di Scorsese.
Anche se è comprensibile l’uso della metafora nel titolo di un’opera artistica che punta sull’effetto emotivo, resta però il dubbio sull’uso del concetto di “guerra” per raccontare gli anni dello stragismo mafioso, per almeno tre ordini di motivi.
Non dobbiamo, in ogni caso, accettare la sfida: la mafia non può ricevere dignità attraverso la sua legittimazione come entità degna di dichiarare guerra.
In secondo luogo, spesso non c’è stata guerra, ma piuttosto collusione. Senza voler entrare nella complessa polemica sulla trattativa Stato-mafia, è il caso di chiedersi: a quale ipotetico Stato nemico avrebbe dichiarato guerra la mafia, che è insieme sistema di potere e modello di accumulazione?
Ne deriverebbe, infine, che le vittime di mafia sono “eroi di guerra”, e ci mancava solo questa, come ultimo passaggio prima che gli eroi diventino “santi”, come qualcuno ha proposto addirittura per Falcone e Borsellino (quando invece la celebre foto che li vede insieme sorridenti ci parla della loro umanità, della semplicità del loro impegno).
Niente “guerra”, dunque, quasi a giustificare i danni sociali, economici, politici causati dalle tante complicità intorno alla mafia, al massimo parliamo di “resistenza” di una parte del popolo italiano che non ha mai accettato l’acquiescenza di quanti hanno fatto finta di non vedere o, peggio, hanno approfittato dei servizi di un welfare perverso.
Come si poteva tollerare, chiede commosso Gianbattista Tona, che venissero uccisi i bambini di Palermo? E come si può tollerare oggi che vengano uccisi i bambini migranti nel “nostro” mare? L’auspicio è che il prossimo futuro ci riservi un mutamento delle coscienze che dia la
Che ai cadaveri dei morti ammazzati si possano sostituire le bandiere colorate e i volti sorridenti dei tanti giovani che dicono NO a tutte le mafie.
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