In una uggiosa e piovosa domenica di marzo entrare al castello Ursino di Catania, per visitare la personale di Antonio Santacroce, artista poliedrico siracusano, ti permette di lievitare e vibrare al cospetto delle sue opere pittoriche, grafiche e scultoree.
L’occasione è la mostra dedicata alla Diva Agata, in seno alle feste agatine organizzate dal comune di Catania e sponsorizzate dall’UNESCO. Se oltre alla vista di quei disegni, incisioni, pitture, sculture, ceramiche aggiungi l’udito, in quanto è presente l’autore nella sala dell’esposizione, ecco che il racconto narrativo di quelle opere si arricchisce e si vivacizza.
Antonio Santacroce si confonde in mezzo alla folla rumorosa dei visitatori, quando ad un tratto comincia, in maniera garbata e discreta, ad illustrare qualche suo lavoro, frutto di lunghe e travagliate elaborazioni tecniche e ricco di esperienze culturali ed emozionali.
L’incipit di questa mostra è una foto che lo ritrae in braccio al padre insieme a tanti contadini: “avevo sei anni quando una mattina fui svegliato all’alba per andare con mio padre perchè c’era qualcosa di bello da fare”. Era il giorno dell’assegnazione dei latifondi a Noto.
Il padre, Giovanni, sin da giovane difensore dei più deboli, aveva frequentato il laboratorio di un noto pittore di carretti siciliani, e scriveva saggi di politica e di satira, ricorrendo a disegni. E il padre gli trasmette questo amore per il disegno che lo porta ad iscriversi nel 1959 ai corsi dell’Istituto d’arte di Catania.
Qui ascolta e fa tesoro degli insegnamenti di Pippo Giuffrida, pittore neorealista, di Carmelo Comes, pittore sociale, e del colorista Francesco Ranno. E proprio a quest’ultimo va il suo pensiero quando fermandosi davanti ad un piccolo, ma prezioso, bozzetto eseguito a scuola da studente, ricorda le parole del maestro: “tu non sai quello che hai fatto”, esprimendo stupore ed apprezzamento.
E da allora di cose e di esperienze l’artista ne ha fatte veramente tante. Negli anni ’60 si dedica alla scenografia, collaborando con il Teatro Massimo Bellini di Catania e con il Maggio Fiorentino, di qui a Roma a contatto con i circoli culturali del nuovo realismo e del new-dada, quindi in Umbria, dove alla contemplazione dei colori della campagna si alternava a quella estasiata degli affreschi del Tiepolo. Importante esperienza di quel periodo è quella in Svizzera dove entra come operaio alla ferriera di Wohlen. E mentre sperimenta in quella occasione il duro lavoro della lavorazione del ferro non perde occasione per visitare i musei di Zurigo, Basilea, Berna ed Amsterdam.
Negli anni ‘70 rientra in Sicilia e si dedica allo studio della psicologia della forma e del colore ed i suoi modelli di riferimento sono Klee e Kandinski. E’ di questi anni lo studio sulle tecniche della litografia su pietra e sulle stampe calcografiche, come l’acquaforte. In questo periodo viene chiamato alla cattedra di Discipline Pittoriche al Liceo Artistico di Catania.
Negli anni ’80 comincia a dipingere, abbandonando l’incisione ed il disegno. Alla fine di quel decennio si trasferisce a Zurigo, dove insegna al Liceo Artistico Kantonschule Freudenberg, e nel 90 per la prima volta visita l’opificio delle pietre dure a Firenze. In quell’occasione, in cui accompagna studenti svizzeri, rimane così affascinato dai materiali esposti nelle vetrine che realizza subito alcune opere, dove si scopre la gioiosità del colore. A seguito di ciò realizza 12 bozzetti, dei quali però – con suo profondo rammarico – sono rimasti solo 4 che custodisce gelosamente.
Negli anni 93 e 95 passa allo studio dei volumi e della materia e realizza sculture come il primo bronzo, Il satiro mutilo, e successivamente il grande bronzo de la Sibilla. La Sibilla segna la chiusura di una fase perché l’artista inizia a dipingere in modo nuovo, riscoprendo il colore ad olio. Di questa materia elogia il profumo, la duttilità, la trasparenza e la corposità.
Le nuove pitture rappresentano per Antonio la materializzazione del proprio sogno archeologico, che porta alla luce oggetti in ceramica, terracotta, vetro, pietre preziose, ecc., i quali appartengono ai palazzi misteriosi della sua immaginazione. Questa mole artistica, poliedrica nel suo manifestarsi, trova una mappatura indicativa nel dipinto in omaggio a Picasso realizzato nel lontano 1963 e riemerso alla sua attenzione nel natale del 1995, quando lui stesso si rende conto che quel quadro era tutto ciò che lui aveva visto sotto l’albero di carrubo e rappresentava in nuce tutto il suo successivo percorso artistico. Quel quadro purtroppo gli è stato rubato e di esso conserva solo una foto.
Racconto fantastico, fervida immaginazione, favole antiche, visione onirica, leggende archeologiche e mitologiche del mediterraneo, emergono grazie alla capacità creativa dell’artista, attraverso la varietà dei materiali impiegati. Dal ferro, alla pietra, al colore, al bronzo alle terrecotte, al gesso, alle plastiline, al vetro, in un continuo oscillare tra una forma e l’altra. Si è concordi con lui nell’affermare che “ad un artista non basterebbe una vita per smettere di scoprire nuovi modi, sistemi, variazioni della stessa meravigliosa ossessione che lo tormenta”.
Ecco una breve galleria di alcune sue opere, per una rassegna più completa visitare il sito dell’artista
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