In tutti e due i casi siamo in presenza di un erotismo mai fine a se stesso, piuttosto ossessivamente utilizzato per mostrare, scuotere e denunciare.
Sostiene il filosofo del linguaggio Lido Valdrè che “la parola volgare può entrare nella formulazione di un pensiero di grande profondità e alta poesia”.
Tempio e Romeo sono dunque “sporcaccioni” contestatori e rivoluzionari, che con i testi letterari e teatrali vogliono svegliare una società, ieri come oggi, benpensante, bacchettona e comunque statica e smemorata.
Scrive, riferendosi a Tempio, l’italianista Antonio di Grado che ci troviamo di fronte all’«esibizione irriverente della parola e della materia fisiologiche in polemica aperta con i limpidi cieli dell’ideologia dominante».
Micio Tempio è una grande passione di Romeo e questo poemetto il regista deve averlo particolarmente amato, visto che lo aveva già messo in scena nei lontani anni 80. La rivisitazione odierna ha visto la prima assoluta a Misterbianco, poi le repliche a Catania, al teatro del Canovaccio fino al primo marzo.
Nucleo centrale dello spettacolo il poemetto ‘L’imprudenza o lu Mastru Staci’ che narra dell’enorme membro di un materassaio, Mastru Staci appunto. Scorge il poveretto intento a orinare contro un muro, l’imprudente notaio Don Codicillo che, rimanendo sbalordito dalle proporzioni dell’attributo, ne parla -e con dovizia di particolari e immaginifici paragoni alla Cyrano di Bergerac- alla moglie Petronilla, suscitando l’interesse di lei.
La donna fa venire in casa l’artigiano con il pretesto di far rifare i materassi, lo seduce e si fa sedurre. La tresca, però, finisce con il crollo del corrimano al quale gli occasionali amanti si erano aggrappati e con la conseguente rovinosa caduta dei due, sul sottostante “banco” del notaio, reso cornuto dalla sua stessa imprudenza.
In petra, nella pietra lavica delle architetture barocche ma anche, forse, “n’petra”, concentrato, indiluibile nocciolo delle cose, simbolo ed essenza di una città. Senza trucco, senza inganno: “Iu non vi dugnu corda pri sosizza…”
Montata nel castone della memoria è la pietra preziosa del poemetto di Tempio, insieme ai suoni e ai colori della Catania che fu e chissà se mai sarà ancora.
Dentro il cortile barocco ricreato da Gabriele Pizzuto affiorano i segni “rivissuti in termini di contemporaneità”, i suoni prodotti da giovani percussionisti alle prese col basolato lavico, le vanniate di un coro femminile che si intrecciano con le note di Franco Lazzaro.
E nella soffitta dei ricordi c’è anche Turi de Friscaletti . “Era costui – scrive Romeo – un giovane che nella Catania degli anni trenta quaranta si incontrava per via Etnea intento a costruire pifferi di canna che poi regalava ai passanti in cambio di un tozzo di pane. Da tempo ho determinato di assumere questo personaggio, tramandato dalla memoria di mio padre, come metafora di Catania. una città che ha saputo essere – naturalmente ostinatamente- generosa di cultura , risorse, umanità, memoria: che non lo è più; che potrebbe tornare ad esserlo”.
In petra, trasfigurazione scenica de L’imprudenza o Lu mastru Staci; drammaturgia di scena e regia Nino Romeo, musiche e orchestrazioni di Franco Lazzaro, scene di Gabriele Pizzuto, costumi di Rosy Bellomia, Narratore Nino Romeo, Graziana Maniscalco (Donna Petronilla), Saro Pizzuto (Il Doppio), Coro: Rossella Cardaci, Pietro Cocuzza, Anna Di Mauro, Elose Pisasale, Scalpellini/Musicisti: Sara Castrogiovanni, Gabriele Cutispoto, Alfonso Lauria, Ennio Nicolosi.
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