Mare Nostrum nasce il 18 ottobre 2013 in reazione allo sbarco a Lampedusa del 3 ottobre durante il quale morirono 366 eritrei. Sull’onda di quella tragedia, l’obiettivo che si pose Mare Nostrum non era solo quello di controllare le frontiere, ma (e soprattutto) di soccorrere i migranti in mare in modo da scongiurare la trasformazione del Mar Mediterraneo in fossa comune.
Il pattugliamento si spingeva quindi nelle acque internazionali (fino a 170 miglia dalle coste italiane), ampliando il raggio di protezione delle persone in fuga e applicando le regole del diritto internazionale in materia di ricerca e soccorso in mare, secondo le quali tutti hanno l’obbligo di salvare chi chiede aiuto in mare aperto.
L’esercito italiano, protagonista principale di questa operazione, le ha conferito una disciplina e un rigore preziosi per il suo successo. Come spiega il capo di Stato Maggiore della marina militare De Giorgi alla Commissione Diritti Umani del Senato, con Mare Nostrum sono stati assistiti più di 156 mila migranti e il 99% di loro è stato sottoposto a controllo medico direttamente in mare; 9 navi madre e 366 scafisti sono stati consegnati alle forze dell’ordine.
Anche le condizioni di salute dei migranti che raggiungevano le coste catanesi sono migliorate, ci spiega Emiliano Abramo della comunità di Sant’Egidio di Catania: prima dell’avvio di Mare Nostrum chi arrivava era moribondo, dopo solo disidratato.
L’operazione costava 9,5 milioni di euro al mese ed è stato proprio a causa di questo costo, eccessivo agli occhi del ministro dell’interno Angelino Alfano, che l’Italia ha insistito affinchè Mare Nostrum fosse affiancata dall’UE.
Fin qui niente di male, anzi: l’Europa avrebbe potuto incrementare i mezzi e le risorse da impiegare per questa operazione e la spesa sarebbe stata suddivisa tra tutti i solidali fratelli europei.
Tuttavia le cose non stanno esattamente così: Triton non è complementare a Mare Nostrum, ma sostitutiva dell’operazione italiana. I soldi destinati a Triton sono un terzo di quelli impiegati per Mare Nostrum e sono stati ridotti anche i mezzi utilizzati, la disciplina e la coordinazione tra gli enti coinvolti e le finalità dell’operazione.
In proposito non ammettono fraintendimenti le parole di Gil Arias Fernandez, direttore esecutivo di Frontex, l’agenzia europea per la gestione delle frontiere esterne che dirige l’operazione Triton: “l’unico obiettivo dell’operazione Triton è controllare le frontiere UE…sebbene salvare vite umane resti comunque una priorità per Frontex”.
Cosa succederà nel pezzo di mare che divide le acque italiane da quelle africane?
Secondo le leggi che regolano il soccorso in mare, se l’allarme scatta nelle acque internazionali l’imbarcazione più vicina ha l’obbligo di intervenire. Ciò significa che anche una nave di Triton potrebbe essere chiamata a intervenire oltre le 30 miglia, ma solo nel caso in cui fosse l’imbarcazione più vicina al luogo del naufragio.
Eppure, una cosa è che una nave debba raggiungere il luogo del naufragio dopo aver ricevuto l’allarme, tutt’altra storia è se la nave si trova già in loco o addirittura è essa stessa ad individuare i gommoni in difficoltà, come succedeva con Mare Nostrum.
Insomma, con Triton si perde tempo prezioso e ancor più preziose miglia di sorveglianza.
Inoltre, chi coordina Triton? Mare Nostrum era condotta dalla marina e per questo poteva fare affidamento – per operare in mare aperto- su un arsenale militare nonché sulla metodica disciplina alla quale i militari sono avvezzi. Molto più complicato il problema del coordinamento di Triton, anche per la presenza di vari ‘corpi’ coinvolti nella missione.
Ci sarà, inoltre, da gestire una flotta europea la cui consistenza è affidata all’adesione volontaria degli Stati membri. Per adesso solo 8 dei 27 paesi membri hanno messo a disposizione gli equipaggiamenti necessari e non è chiaro quale catena di comando seguire.
Quali i mezzi a disposizione? Le imbarcazioni impiegate per i salvataggi non bastano e per questo si fa affidamento sulle navi commerciali (cargo o petroliere) che navigano lungo le rotte che collegano la Libia, l’Egitto e la Turchia alle coste italiane.
Ciò rende i soccorsi più pericolosi perché il personale delle navi commerciali non è esperto in materia di salvataggi in mare come la marina militare. E’ emblematico lo sbarco dell’8 giugno 2014 a Pozzallo, che è costato la vita a 17 migranti perché durante le operazioni di salvataggio svolte dalla petroliera Norient Star, il gommone ha urtato contro la scaletta della nave mercantile e si è bucato, ribaltandosi.
La reazione della società civile non si è fatta attendere: dall’UNHCR ad Amnesty International, passando per Medici Senza Frontiere e ASGI (Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione), si sono levate solo voci contrarie alla chiusura di Mare Nostrum.
Anche a Catania, chi lavora quotidianamente con i migranti esprime preoccupazione.
Emiliano Abramo spende parole di elogio per Mare Nostrum, considerandola un’eccellenza italiana che ha anche sensibilizzato i corpi militari coinvolti nei salvataggi sul tema dell’immigrazione e dell’accoglienza. Inoltre la spesa maggiore dell’operazione era dovuta al mantenimento delle navi militari in mare aperto…spesa da mettere comunque in preventivo perché le navi militari necessitano di essere periodicamente messe in moto per mantenersi in buono stato.
Diversa l’opinione di Don Piero Galvano, direttore della Caritas, secondo il quale né Mare Nostrum né Triton sono progetti risolutivi del problema, essendo anche operazioni dietro le quali ci sono forti interessi economici. Bisognerebbe, invece, creare dei corridoi umanitari per i migranti, affinchè dal paese di provenienza possano arrivare a destinazione in sicurezza, ci dice. Anche la presidente del Centro Astalli di Catania, Elvira Iovino, condivide questa idea, sebbene ritenga che la fine di Mare Nostrum sia tutt’altro che positiva.
Se già Mare Nostrum non era una risposta risolutiva per i migranti che attraversano via mare il Mediterraneo, di certo il passaggio a Triton ha determinato un arretramento non solo fisico, ma anche
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